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Arbitri
GUIDO FEDERICO DI FRANCESCO: FRA CALCIO E BASKET HO SCELTO IL BASKET.
Guido Federico Di Francesco, durante una gara di basket.

Campionato di calcio di Serie C 2005/2006. Guido Federico Di Francesco, durante il derby Spal-Reggiana.

Guido Federico Di Francesco, durante una gara di basket di LegaDue a Brindisi.

Intervista all’arbitro teramano promosso in Serie A, che ha arbitrato anche nel calcio, arrivando alla Serie C.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedì, 03 Luglio 2012 - Ore 23:45

Guido Federico Di Francesco ha l’arbitraggio nel sangue. Il padre, Piero, ha diretto per anni la sede teramana degli arbitri di calcio, oggi retta da Simone, che è il fratello di Guido Federico. Quando si dice: arbitraggio, passione di famiglia!
 
Il fischietto abruzzese, nato a Teramo il 22 giugno 1976 da mamma Elisa e Papà Piero e marito di Monia dal 31 dicembre 2011, ha però una caratteristica che lo rende più unico che raro nel panorama degli arbitri di basket: è stato anche arbitro di calcio, arrivando fino alla Serie C, dirigendo nelle stesse stagioni sportive sia le gare all’aperto 11 contro 11 sia quelle indoor 5 contro 5, con tutto quel che possiamo immaginare in termini di apprendimento di diversi regolamenti, stress, impegni, trasferte e altro ancora.
 
Il Nostro, pur avendo già arbitrato una gara nella massima serie nella stagione appena conclusa – a causa dello sciopero di alcuni arbitri e dei conseguenti stop – è stato da pochi giorni promosso dalla LegaDue alla Serie A: una grandissima soddisfazione, visto che da 18 anni mancava un arbitro abruzzese promosso nel primo campionato. L’ultimo era stato l’odierno “guru” dei direttori di gara italiani ed europei: Luigi Lamonica.
 
E allora, per conoscere meglio l’arbitro “calciobasket”, che quando ha dovuto scegliere quale carriera proseguire per arrivare in vetta ha scelto il basket, gli abbiamo fatto questa intervista.
 
Come devo chiamarti? Guido, Federico o Guido Federico?
«Gli arbitri vengono chiamati rigorosamente per cognome, direi dunque “Di Francesco di Teramo” e sono orgoglioso di portare il nome della nostra città, per tutto quanto ha espresso nel mondo del basket. Per il nome, Guido e Federico vanno bene entrambi, poiché uno lo voleva la mamma e l'altro papà. Siccome in famiglia siamo un po’ testardi, me ne toccarono due».
 
Di solito, i giovani amano giocare, non arbitrare. Nel tuo caso, qual è stata la scintilla, il fatto, l'aneddoto che ti ha fatto decidere di arbitrare?
«Nel basket c’è questa buona cultura di giocare ed arbitrare e lo si può fare fino ai 26 anni. Così, mentre giocavo con l'allora Aics Teramo, mi iscrissi al corso di arbitro di basket praticando saltuariamente. Poi, nel 1995, smisi di giocare anche a calcio e mi iscrissi, per colpa di papà e di alcuni amici, al corso di arbitro di calcio. La verità è che in una partita di calcio, arbitrata da un mio amico, mi feci espellere per proteste e presi qualche giornata di squalifica, nonostante avessi ragione, dato che conoscevo bene il regolamento, visto che mio padre era il responsabile dei corsi da arbitro di calcio e allora ne sapevo una più del diavolo».
 
Hai avuto una carriera proficua sia nel calcio sia nel basket. Quando hai dovuto decidere e perché hai scelto il basket?
«Vero. Se c’è una cosa che ho fatto nella mia vita, quella è l'arbitro. Nel calcio ho smesso nel 2006, dopo aver raggiunto la Serie C, mentre mi trovavo a dirigere i campionati di basket di Serie B1. Ho deciso di smettere dopo qualche mese dalla promozione in Serie C, perché le due carriere parallele erano troppo impegnative in termini di tempo ed avrei dovuto fare rinunce lavorative troppo onerose, che non mi avrebbero lasciato la serenità, dovendo investire eccessivamente in questa carriera. Ho scelto il basket perché è un ambiente molto diverso e più rispondente al mio stile di vita, tanto che oggi posso lavorare ed arbitrare in Serie A, senza alcuna rinuncia. Anche perché di arbitrare si rischia di smettere da un momento all'altro, e allora ritengo che la propria carriera professionale lavorativa vada coltivata assolutamente, in modo da essere anche più liberi nel decidere».
 
Qual è il tuo bilancio nel calcio?
«11 anni di carriera e una dimissione al 6° mese di Serie C, con grande rammarico di mio padre, che vive ancora questo ambiente e che oggi ha potuto dare un senso a quella mia scelta. Sono stato anche impiegato in alcune gare da 4° uomo in Serie B. Ne ricordo una in particolare, a Cesena, nella quale arbitrava Rizzoli e dovemmo fermare la gara per l’esposizione di uno striscione contro l’allora presidente di Lega, Galliani. Il giorno dopo arbitravo il basket a Taranto».
 
Da Cesena a Taranto in una notte. Ma come hai fatto, negli anni, a gestirti questa doppia vita arbitrale?
«E’ stata dura. Arbitravo il sabato sera a Bologna e la domenica a Cosenza, oppure il pomeriggio la Primavera a Roma e la sera la B2 a Montevarchi. Quasi non facevo in tempo a cambiarmi, tanto che ancora mi è rimasto il vizio di utilizzare i calzettoni da arbitro di calcio, così come mi capitava nei campionati giovanili, quando correvo da un campo all'altro. La più bella l'ha comunque fatta mio fratello, anche lui con la doppia passione: un sabato arbitrò a Palermo il basket, mentre la domenica era a Cagliari per il calcio. Geniale».
 
Affinità fra l'arbitro di basket e quello di calcio?
«Direi che è un po’ come essere medico. Puoi avere una specializzazione, ma in fondo resti medico ed è una vocazione, altrimenti non lo faresti».
 
Divergenze fra l'arbitro di basket e quello di calcio?
«L'individualità calcistica da una parte, il lavoro di squadra e l'ottimizzazione delle risorse della pallacanestro dall’altra. Non oso pensare cosa potrebbe accadere in un campo di calcio se ci fossero tre fischietti. Ci arriveranno, ma ci vorrà ancora del tempo. Non basta aggiungere arbitri - credo siano arrivati a 6 - ma bisogna stabilire chi fa cosa, come nel camino: a volte non serve aggiungere legna, ma se ordini bene quella che c’è, torna ad ardere bene e meglio».
 
Lasciato il calcio, eccoti totalmente dedicato al basket. Dopo 108 gare in LegaDue e una la scorsa stagione in Serie A, la promozione. Un bilancio del tuo ruolo nella pallacanestro?
«Parlerei di arricchimento umano nello svolgere questa attività. Domenicalmente, mi trovo in posti sempre diversi e posso scoprire nuove culture, nuove filosofie, conoscere gente e trovare il modo di garantire il regolare svolgimento di una partita, senza che nessuno si incazzi».
 
Gli arbitri ai quali ti ispiri?
«Ho cercato di cogliere e riproporre quanto c’è di ammirevole in ognuno di quei colleghi a cui mi ispiro. Adoro la cordialità di Mattioli, l'atletismo di Paternicò, la personalità di Facchini e la continuità unita al talento di Lamonica. Vorrei mixare, se possibile, tutto dentro Di Francesco».
 
L'allenatore più corretto incrociato finora?
«Faccio il promotore finanziario e con questa domanda è come se mi chiedessi il mio miglior cliente: non potrei dirtelo, perché violerei il segreto professionale. Ti posso però raccontare un aneddoto con Perdichizzi, nella finale Brindisi-Venezia per la promozione in Serie A. In un momento importante della partita, una palla esce fuori, vicinissima a lui. Io fischio e non assegno a nessuno, non avendo visto di chi era, e lui mi dice: “Non lo sai di chi è?!” e io rispondo: “No che non lo so, ti va di suggerirmelo?” e il coach risponde: “Non l'ho vista neanche io, ora a chi la dai?!”. E io: “Al primo che arriva”…  e scoppiammo in una risata tutti e due».
 
Il giocatore più corretto incrociato finora?
«Gurini. Quando era a Rimini, ha vinto il premio fair play che inventammo in quella partita, anche se mi sarei aspettato almeno un ringraziamento. Una palla va fuori dal campo ed io la do alla sua squadra, ma dalla faccia del giocatore avversario e dalla reazione della panchina mi viene il dubbio di aver commesso un errore. Allora vado da lui e gli dico: “Ti va di dirmi se l'hai toccata?”, lui mi risponde: “No, no” ed io, allontanandomi: “Speriamo tu non l’abbia toccata davvero, altrimenti sai che figuraccia tutti e due…”. A quel punto, lui mi viene incontro e mi dice di averla toccata, così io lo abbraccio e lo bacio in campo».
 
Il tuo "sogno realizzabile", professionale parlando?
«Nel mio lavoro, aiutare i clienti a concretizzare i sogni, studi dei figli, casa, vacanza, nipoti e tanto altro. Nell'arbitraggio, ora che sono in Serie A, arbitrare la Finale Scudetto e offrire ai ragazzi più giovani tutto quell’entusiasmo e quell’attenzione nella crescita che non ho avuto io».
 
I 3 aggettivi che fanno un buon arbitro di basket?
«Onesto, accettato e felice».
 
Quando in gara ti accorgi che hai sbagliato, che fai? Fischi a compensazione o cancelli l'accaduto dalla tua mente per non perdere lucidità?
«Difficilmente pensi di aver sbagliato, perché quando fischi l'hai vista così e ne sei certo. Poi, con un po’ di sensibilità, percepisci che qualcosa non torna e forse ti metti in discussione, ma non hai comunque la certezza. Compensazione: errare è umano, perseverare è arbitro».
 
Arrivare ad arbitrare in Serie A è un punto di arrivo o di partenza?
«Pensavo fosse un punto di arrivo, ma uno dei miei giovani arbitri, dai quali voglio sempre il massimo, mi ha subito detto che si aspetta da me l'esempio di come si sta in Serie A».
 
A chi dedichi questo bel successo professionale? 
«Alle persone a me care. Mia mamma, alla quale ho rinunciato tutti i fine settimana, mio papà, che ha sopportato le mie dimissioni calcistiche ed oggi confido sia fiero di me, mio fratello Simone, anche lui ex arbitro di basket ed ancora in forza al calcio quale assistente arbitrale alla Can B e Monia, che nonostante tutto ha deciso di sposarmi».
 
Luca Maggitti
 
 
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Arbitri di basket
 
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