Marino Di Colli, “Jezz” per gli amici, chef di professione – ma lui preferisce “cuoco” – ieri ha compiuto 50 anni.
Jezz è la persona che mi ha insegnato a mangiare.
Mi ha fatto prendere il mare del gusto – poco più che ventenne – dandomi il coraggio, sotto forma di piatti strepitosi, di passare le Colonne d’Ercole del timballo e dei maccheroni alla chitarra.
In tutti questi anni, Marino mi ha reso una persona migliore. Nelle sue tre vite professionali – Cantina di Epicuro, Locanda di Jezz, Braceria da Ciambi (dove tuttora lavora) – tutte rosetane, mi ha fatto fare bella figura centinaia di volte.
Quando non sono stato un conversatore all’altezza (50% dei casi, stante la qualità dei compagni di tavola), i suoi piatti hanno fatto dimenticare ai commensali le mie voragini culturali.
Quando non sono stato affascinante per la musa che condivideva con me il desco (95% dei casi, stante come sono messo), i suoi piatti sono stati il violino che ipnotizza e concede il perdono per giro vita e doppio mento. Le mie conquiste sono in realtà di Jezz. O, meglio, dei suoi piatti.
Marino mi ha fatto mangiare ogni cosa commestibile esistente nei regni animale e vegetale. E non ho mai inghiottito per compiacerlo, ma sempre per mio piacere.
Ho perso il conto delle persone alle quali ho voluto far scoprire la sua cucina. Sono troppe e gli anni passano.
Inforcando come fosse sapida carbonara i ricordi, attorcigliandoli ai miei polpastrelli per poi srotolarli qui sul computer, il primo è quello di una serata solitaria alla Cantina di Epicuro (il mio tavolo era il primo a sinistra, entrando): una coppia vide quel che stavo mangiando e mi disse che era il piatto del loro fidanzamento. Poi aggiunsero che erano umbri e ogni anno, in occasione del loro anniversario di matrimonio, prenotavano al Bellavista e scendevano a Roseto per cenare da Marino.
Poi le serate alla Locanda di Jezz (entrando, il mio tavolo era quello da due posti nascosto dietro la colonna), e allora proseguo nei ricordi solitari per non far torto a nessuno, con la perla di una sera in cui il suo socio, Marco Pasquini, uscì portandomi un tartufo bianco da annusare e dicendomi: “Se vuoi, stasera Marino si inventa qualcosa con questo”. Estasiato da quella degustazione ed ebbro per il bianco barricato, me ne tornai in sella alla mia fida Leonetta, zigzagando sulla ciclabile con un sorriso da orecchio a orecchio, mettendomi poi a scrivere uno dei pezzi più alti della mia trascurabile produzione giornalistica.
Poi Ciambi (il mio tavolo, entrando, è quello a sinistra in fondo all’angolo), seduto in modo da guardarlo attraverso l’oblò. E qui il ricordo è della sua prima sera in cucina, con me che entro e lo saluto facendogli il segno “3”, che non era un riferimento serbo, bensì il numero di piatti che intendevo mangiare, benvenuto e dessert esclusi, come da nostro antico protocollo della Locanda, in cui non abbassavo la testa per leggere il menù, perché mi bastava alzare la mano indicando un numero – da 2 a 4 – e poi “ci pensa Marino”.
Suo cliente seriale, non ho mai mangiato due volte la stessa cosa, salvo in caso di mia specifica richiesta.
Pacioso, umile, iconoclasta, artista, sereno: questo e molto altro è per me Marino.
La sua cucina ha stregato praticamente tutti quelli che l’hanno assaggiata. Una sola eccezione, in oltre 20 anni: un giornalista portato alla Locanda di Jezz, che però – come mi disse un suo collega, mettendomi in guardia – era “un quarantenne con i gusti enogastronomici di un sedicenne”. Il mio amico non mangiò gli squisiti piatti di Marino, facendomi un favore (mangiai il mio e il suo), diventando però matto per la fritturina di pesce che Jezz gli servì alla fine (mosso a compassione dalla sua ignoranza applicata alla buona tavola), soltanto – suppongo – per l’amicizia di lunga data con il sottoscritto.
Per il resto, solo applausi e proposte di “sequestro di chef”.
Il comico e attore Claudio Batta voleva portarlo a lavorare in Lombardia, il giocatore di basket Norman Nolan negli Stati Uniti, un amico del giornalista e marketing Manager Giamma Vacirca a Formentera. Tutti pazzi per Marino, che però ama starsene nella sua Roseto.
Dei suoi dessert era ghiottissimo coach Neven Spahija, il suo risotto mandava in orbita Nolan, Peppe Poeta e Kristaps Janicenoks vennero a consolarsi a tavola nel mezzo di un periodo “no” del loro Teramo.
Valerio Bianchini, Mario Boni e Donato Avenia mi hanno regalato le interviste più belle pasteggiando da Epicuro.
L’intervista a Franco Gramenzi per il libro sulla vittoria del campionato del suo Ferentino l’abbiamo fatta da Ciambi.
Il libro “il CUORE del ROSETO” ha cominciato a camminare dopo che Marino ha nutrito me e gli editori Riccardo Innamorati e Massimo Bianchini, sempre da Ciambi.
E poi Luciano Saborido, Willy Rhodes, Luke Recker e Claudio Bonaccorsi, Cesare Pancotto e Luca Dalmonte, Alessandro Ramagli e Giovanni Benedetto, Stefano Vanoncini e LeRoy Hurd, Domenico Sorgentone e Alessandro Angeli, Luigi Lamonica e Roberto Radaelli (e i suoi colleghi arbitri prima scettici e poi stregati dal carpaccio di petto d’oca) e chissà quanti altri ancora della truppa baskettara.
Per non dire degli altri commensali riferibili al Premio Borsellino: da Lirio Abbate a Beppino Englaro.
E poi tutti gli amici di sempre e quelli che vedo poco a cui tengo, per coccolarli quando ci si rivede, e anche gente di passaggio che ha sentito parlare di questo chef e vuole saggiarne la cucina.
Insomma: Marino è uno di famiglia per me, che settimanalmente provo a rinnovare la mia fede per la sua cucina visitandolo e associandomi alla sua liturgia laica, consistente in due azioni: lui cucina, io mangio. Amen.
Quindi il suo mezzo secolo, i suoi 50 anni, sono per me un momento significativo. E questo pensiero, oltre alla ripubblicazione di una intervista che gli feci 10 anni fa (in cui, uno dei pochi, aveva visto giusto indicando Niko Romito come un giovane chef di sicuro avvenire), è il mio modo di dirgli grazie per tutte le volte in cui ha dato sapore alla mia vita.
Buon compleanno, Jezz.
Marino l’Epicureo
Articolo pubblicato su IL SEGNAPOSTO, nel 2004.
L’appuntamento è alle cinque della sera. Siccome la circostanza mi fa pensare alla morte del torero di Federico Garcia Lorca (Alle cinque della sera. Erano le cinque in punto della sera...) decido di andare alle cinque e mezzo.
Il mio dirimpettaio di chiacchierata è Marino Di Colli, classe 1964, chef (anche se lui si definisce semplicemente cuoco), del ristorante La Cantina di Epicuro di Roseto degli Abruzzi.
Il Nostro, che sta già incasellando cibi e spezie per la cena, mi accoglie con un cioccolato caldo con brodo di giuggiole. Lo assaggio e penso che è come se Zorro mi avesse accolto tracciandomi un zeta sulla giacca. Così, tanto per mettere le cose in chiaro, con un sorriso e senza strafare.
Epicureo. Più lo guardo e più penso che uno come Marino non può lavorare che “per Epicuro”. Tondo, elegante nel suo soprappeso, timido ma sorridente, mai sguaiato, un voglia di vino sul viso quasi a marchiare a fuoco la sua passione per le cose che si mangiano e si bevono, me lo immagino bene, l’amico chef, a predicare la liberazione dal dolore, a vivere imperniando i suoi giorni sulla ricerca del piacere. Me lo immagino persino eretico, nell’accezione più lontana del termine epicureo, negare l’immortalità dell’anima. Per forza, lui cucina trasmettendo la sua anima, gli altri la assaggiano e tutto si propaga, in un carosello sgargiante come i pantaloni che qualche volta indossa questo chef appassionato di jazz (Jezz è ancora oggi il soprannome per gli amici) e di arte.
Fu persino batterista volenteroso, mi dice, ma senza guizzi. Meglio così. Quando vorremo qualcuno in grado di farci vibrare con le sue bacchette ascolteremo Max Roach, quando vorremo vibrazioni derivanti dall’uso di forchetta e compagnia bella andremo da Marino.
Marino guida con mano ferma ma creativa il ristorante La Cantina di Epicuro di Roseto degli Abruzzi, che nella Guida L’espresso 2005 è, insieme a Beccaceci di Giulianova, il ristorante della provincia di Teramo con il più elevato punteggio.
I suoi menù di terra e di mare catturano sempre più appassionati e, ultimamente, hanno avuto anche un estimatore formidabile in quanto a popolarità: la rubrica “Gusto” del TG5.
Così Marino Di Colli, che preferisce cucinare più che parlare, si è trovato catapultato a mezzodì su Canale 5, per ben due venerdì consecutivi, proponendo cannelloni di baccalà con ricotta fresca e salsa di peperoni e coda di rospo con carciofi e curry.
Milioni di persone lo hanno visto e quindi il taciturno chef rosetano, che puoi vedere alla guida della sua station wagon inerpicarsi fino a Santo Stefano di Sessanio e Navelli per comprare di persona rispettivamente lenticchie e zafferano, ha duettato con Maria Luisa Cocuzza e rotto il ghiaccio della timidezza che lo contraddistingue.
E allora sfrutto la cosa e vedo di conoscerlo un po’.
Marino, il tuo interesse primario è la cucina. C’è qualcosa che proviene dalle tue passioni che ti piace trasmettere nei tuoi piatti?
«Mi viene in mente l’astrattismo».
Mi stai dicendo che un cuoco è un po’ anche un artista o sto sconfinando con le parole?
«Sì, ma solo un po’. Alla base c’è molto studio e poi molta pratica».
Tu vieni da un istituto alberghiero, quello di Silvi, che non c’è più. Poi hai fatto tanta gavetta nei locali “di quantità”, giusto?
«Sono stato, fino a qualche anno fa, uno dei tanti cuochi che ha girato l’Italia e un po’ di estero, facendo una rispettabile cucina di maniera».
E poi come mai la decisione di abbracciare il progetto di cucina di qualità?
«Devo tutto a un cuoco mio caro amico con il quale ho lavorato dalle parti di Varese e vicino a Milano, metropoli capace di coinvolgerti con i suoi influssi tematici. Lui mi spiegò che esisteva un altro modo di fare cucina».
Da una cucina di maniera a una cucina di stile?
«Ho sempre avuto la voglia di imparare di più, crescere e migliorarmi. Forse non sapevo come fare, da chi andare. Poi il mio amico, Claudio, mi aprì una porta oltre la scaloppina e io ci ho messo del mio leggendo tanti libri e ogni rivista che parlasse di cucina».
Poi l’incontro con Mimmo e con La Cantina di Epicuro.
«Finalmente ho trovato, nel 1998, l’occasione di dare corpo alle mie letture, ai miei pensieri, ai miei progetti grazie a Mimmo e al suo locale. In tre parole: fare, provare, sperimentare, con passione pura e, posso assicurarti, senza scopo di lucro».
Addirittura senza scopo di lucro. Il ristorante come funzione sociale?
«Se vuoi fare soldi non apri un posto come La Cantina di Epicuro, te l’assicuro. Un ristorante così lo apri perché hai passione e, perché no, hai piacere di essere uno che prova a far crescere il territorio dove vive sotto un aspetto che è quello del cibo e del vino. In questo senso credo proprio che sì, il nostro Epicuro svolga anche una sua piccola funzione sociale di cui andiamo orgogliosi. Una cucina migliore secondo me rende migliore la gente che la mangia, la sensibilizza. La nostra funzione è anche di dare una sorta di educazione ai clienti, anzi agli ospiti che ci vengono a trovare».
Perché ospite e non cliente?
«E’ più appropriato. Non potrei cucinare sapendo che seduti ci sono solo clienti. Mi piace cucinare come se lo stessi facendo per i miei cari».
Ti senti fortunato, oggi, rispetto ai tanti tuoi colleghi che, per le esigenze più svariate, praticano una cucina monotona e ripetitiva?
«No, ho profondo rispetto per tutti i colleghi. Ognuno sceglie la sua strada».
Ti senti un po’ pioniere, a Roseto, per il tipo di ristorante che porti avanti?
«Questo sì. Io poi sono uno facile alle emozioni e magari sono capace di rimanerci male se mi chiedono la chitarra con le pallottine, che per inciso è un grandissimo piatto, mentre io faccio altro. Non dico che sia meglio o peggio, dico soltanto che il mondo è grande e vario e che ci sono tanti modi di cucinare. Adoro l’ospite curioso, che si lascia coinvolgere da questo meccanismo di scoperta a tavola».
Il mondo è immenso e tu cerchi di riassumerlo, culinariamente parlando, in un menù. Un compito improbo direi.
«Certo, impossibile quando ti fermi a pensarci. Ma l’importante è non pensarci e lavorare cercando la perfezione, tendendo alla perfezione. Io non mi definisco chef, perché chef è una parola importante di cui oggi credo si abusi un po’ troppo. Io sono un cuoco, che ama la propria passione, con una grande voglia di imparare ancora».
Quali chef ammiri?
«Innanzitutto Gualtiero Marchesi, un pioniere. Poi i giovani Massimiliano Alaimo e il nostro Niko Romito, bravissimo abruzzese».
Parliamo un po’ del nostro Abruzzo in cucina. A che punto è il movimento regionale?
«Secondo me ha delle potenzialità enormi che non vengono adeguatamente valorizzate. Penso non solo ai ristoranti, ma anche ai produttori e alle possibilità di crescita. Pensa al pecorino, all’aglio rosso del vastese e alle tante possibilità di approfondire e di valorizzare le nostre peculiarità».
Come definisci la tua cucina?
«Il frutto della mia curiosità, partendo dalla tradizione. Mangiare ogni giorno la stessa cosa non mi è mai piaciuto. Ogni giorno è un giorno nuovo, anche in cucina».
Esistono dei confini o in cucina tutto è lecito per te?
«Un po’ di estremismo ci sta bene, penso ad Ferran Adrià, ma i sapori devono essere riconoscibili».
Dopo le lodi della Guida de L’Espresso, addirittura Canale 5 con due uscite nella rubrica “Gusto”. Com’è stato questo bagno di popolarità?
«Io che sono una persona schiva e un po’ timida mi sono molto meravigliato. Tante telefonate di complimenti e addirittura qualcuno che mi ha fermato per strada. Spesso se ne parla, ma ti accorgi davvero della potenza comunicativa della televisione solo quando ti capita di finirci per qualche motivo. Ovviamente, è stato un onore e mi ha fatto un grandissimo piacere, più per il mio lavoro che per il piacere della popolarità fine a se stessa. Se ci pensi è uno stimolo in più».
Ma è vero che sono venuti anche dall’Umbria a Roseto per assaggiare i tuoi gamberi con la polvere di caffè?
«E’ vero e ne sono felice. Così come sono orgoglioso che una coppia campana e una coppia statunitense, ogni estate, vengono a Roseto per trascorrere qui da noi il loro anniversario di nozze».
Esiste un pericolo “impostore” nell’alta cucina?
«Sì, ma i furbi vengono presto messi in mutande da clienti competenti ed esigenti, che oggi girano e vogliono conoscere e che spesso capiscono di tutto, dal vino al cioccolato».
È un segno dei tempi. Oggi si esce più per il piacere di gustare che per riempirsi la pancia?
«Diciamo di sì, anche se dalle nostre parti c’è ancora una sorta di zoccolo duro che preferisce uscire per mangiare nel senso più quantitativo del termine. Questo è legato alla tradizione e alla cultura di generazioni fa, quando un pranzo vero era solo per i giorni di festa, era qualcosa da ricordare».
Insomma, per te a tavola tocca andarci con gusto, garbo e amore per la scoperta…
«Certo. Pensaci, a tavola si decide quasi tutto: l’amore, gli affari. E’ perciò importante starci bene».
Però la tavola è soprattutto necessità di sicurezza per molti, quindi l’amore per la scoperta va a farsi benedire…
«Si, ma sicurezza non è necessariamente un concetto associabile alla cucina tradizionale o casereccia, anche perché qualcuno può anche dire di fare cucina casereccia, ma poi se non ha le materie prima caserecce… ».
Quali cucine mondiali ti affascinano?
«Per i colori e per alcune preparazioni la cucina giapponese, quella francese per la tecnica, il perfezionismo, le cotture».
Cosa vorresti che fosse, oggi, il sedersi a tavola?
«Un rito. Due ore al giorno, da trovare perché è giusto che sia così, per mangiare un buon piatto e bere un buon bicchiere di vino. Sono certo che aiuta a fare tutto meglio».
ROSETO.com
Via Seneca [Il privè di ROSETO.com]
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