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Cultura
SERENO, STAI SERENO...
Lucio Anneo Seneca.

Dodici consigli per vivere in pace con sé stessi e il mondo. Vengono da lontano. Uno scritto di Mario Giunco, pubblicato su Eidos News.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 09 Agosto 2017 - Ore 12:45

Ne vide di tutti i colori  Lucio Anneo Seneca, spagnolo di Cordova,  trapiantato a Roma nel primo secolo dopo Cristo.  Aveva iniziato la sua carriera da avvocato, era un abile oratore, di quelli che andavano di moda allora, dotato di uno stile ampolloso e artefatto, quando la repubblica era tramontata da tempo e le parole contavano più per gli effetti speciali che suscitavano, come un film in 3D, che per la sostanza.

Gli toccarono tre imperatori, che meglio non poteva incontrare, tre fiorellini profumati di virtù: Caligola, Claudio e Nerone, con relative madri, mogli e amanti.

Il primo lo condannò a morte per un discorso oltraggioso, ma lo risparmiò. Gracile e malandato come era, pensava che non sarebbe vissuto a lungo.

Il secondo, visto che non moriva di malattia, lo spedì in esilio in Corsica per otto anni, perché coinvolto in un processo per adulterio. Seneca si vendicò spietatamente  in un poema – dal titolo complicato, quasi uno scioglilingua in latino, che si potrebbe tradurre “Zucchificazione” – immaginando Claudio, non propriamente  un genio, trasformato in zucca, appena giunto nell’oltretomba.

L’imperatrice Agrippina lo fece ritornare a Roma, perché voleva educare per bene il figlio Domizio, il futuro Nerone.  Seneca aveva cominciato ad occuparsi di filosofia. Di filosofia morale, si intende,  fatta di buoni precetti  per sopravvivere in tempi calamitosi. Scrisse delle “Consolazioni”, dedicate a chi era stato privato di affetti familiari o aveva avuto altre disgrazie e opere di varia ispirazione, che vanno sotto il nome di “Dialoghi”.

Come consigliere dell’imperatore non si guadagnò buona fama, se è vero che Nerone, per dare retta a lui, uccise il fratellastro Britannico e la madre. Tanto, diceva Seneca, avrebbero ucciso  loro l’imperatore, conveniva anticiparli. Ma nemmeno  lui ricordò la fine del principato. Fu costretto al suicidio, avendo partecipato a una congiura. 

Di passaggio compose nove tragedie, così macabre e orripilanti - sangue a profusione, perfino cannibalismo -  da non poter essere portate in scena. Nel IV secolo si diffuse la falsa notizia di una corrispondenza con san Paolo. Seneca, infatti, nelle sue opere filosofiche – in particolare in tre, che hanno tutte come interlocutore il giovane Anneo Sereno , “La costanza del saggio”, “La tranquillità dell’animo” e “L’ozio” – era diventato uno dei principali diffusori e divulgatori della filosofia stoica, che insieme ad alcuni tratti dell’epicurea (sì, proprio quella, che potrebbe sembrarne l’antitesi)  confluì nel cristianesimo.

Oggi chiamiamo “stoico” una persona che sopporta con coraggio e dignità sofferenze e disagi.  Ma,  fin dall’inizio,  lo stoicismo, nato in Atene intorno al 300 a. C. per iniziativa di Zenone di Cizio, prospettava qualcosa di più. Per raggiungere l’“imperturbabilità” (termine caro anche agli epicurei) e la “serenità” – che non è quella dispensata da chi  ti invita a stare tranquillo e intanto ti  sega  i piedi della sedia, ma una sorta di  positiva “apatia” - occorrono autocontrollo e distacco dalle cose e dalle passioni.

Il saggio deve trascurare  i condizionamenti che la società gli impone, ma non disprezzare  il mondo. Deve prestare aiuto ai bisognosi.  Qui la vicinanza con il cristianesimo è ancora più marcata.

Ma oggi ha un senso professarsi stoici? Massimo Pigliucci, docente a New York di filosofia e poi genetista, biologo, ecologo,  qualche screzio di carattere teologico con papa Francesco, dice di sì. Nel suo libro “Come essere stoici”,  appena uscito da Garzanti e subito assurto agli onori televisivi, cerca in questa  filosofia, che guidava, tra gli altri, Seneca e l’imperatore Marco Aurelio, risposte valide a indirizzare la nostra vita, scartando lontane o estranee tradizioni spirituali orientali.

Lo stoicismo – sostiene Pigliucci – dà all’uomo la serenità di accettare le cose che non si possono cambiare, il coraggio di intervenire su quelle che si possono cambiare e la saggezza di distinguere le une dalle altre.

Per essere sereni, coraggiosi e saggi,  bisogna orientarsi su questi dodici principi:
1) Evitare reazioni affrettate;
2) Ricordarsi della transitorietà delle cose;
3) Scegliere obiettivi in nostro potere;
4) Essere virtuosi;
5) Prendersi un momento e respirare  profondamente;
6) Mettere i problemi in prospettiva;
7) Parlare poco e bene;
8) Scegliere in modo accorto le proprie compagnie;
9) Rispondere agli insulti con l’umorismo;
10) Non parlare troppo di sé;
11) Parlare senza giudicare;
12) Riflettere sulla giornata appena trascorsa.

Belli, giusti, ispirati alla saggezza degli antichi, questi consigli. Forse il n. 2 è il più pertinente, come quello che invita gli uomini a non concepire folli voli,  attese vane, speranze illusorie.  Del resto “Tout casse, tout passe, tout lasse” (“Tutto si rompe, tutto passa, tutto stanca”) ricorda quel detto francese, che lascia in cuore tanta malinconia. E un’unica certezza.

Mario Giunco
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