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Alta Cucina
DAVIDE PEZZUTO: LA STRADA PER LA STELLA.
Davide Pezzuto, chef del D.one.

Intervista allo chef del D.one di Montepagano, fresco di Stella Michelin. In calce, altri articoli che riguardano lo chef salentino e il ristorante sito nel borgo antico.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 27 Novembre 2017 - Ore 19:00

Davide Pezzuto, chef salentino classe 1980, è fresco di Stella Michelin per il suo “D.one”, che impreziosisce il borgo antico di Montepagano di Roseto degli Abruzzi. Per celebrare il prestigioso riconoscimento, peraltro ottenuto a tempo di record, gli abbiamo fatto una lunga intervista. Eccola.

Davide... cucinare. Dillo con un altro verbo.
«Me ne servono alcuni: innovare, esaltare, elaborare, stimolare».

Adesso dimmi: cos’è per te la cucina?
«Il mio mondo, ma anche il mio rifugio. In cucina mi sento come un bambino nelle braccia di sua madre. La cucina mi ha dato una sicurezza che, altrimenti, mai avrei raggiunto nella vita».

Quando hai deciso che avresti fatto della cucina il tuo lavoro?
«Era il 2000 e avevo 20 anni. In Puglia, regione dalla quale vengo, avevo dei terreni ed era la stagione dei carciofi. Io avevo in mente di diventare un proprietario terriero e aprire un ristorante da gestire, conferendo i prodotti della terra a mio zio, che funge un po’ da consorzio fra noi suoi parenti che abbiamo dei fondi. Purtroppo la stagione agricola andò male e io avevo necessità di guadagnare, quindi pensai alla cucina. All’epoca avevo in tasca solo una qualifica triennale dell’istituto alberghiero, scuola che avevo preso in verità come un ripiego e che mi deluse profondamente, perché non imparai praticamente nulla e perché se fosse stato per i miei docenti, potevo benissimo diventare un ragazzaccio di strada. Insomma: scelta casuale, diventata con il passare degli anni convinta scelta di vita».

Ti ricordi la prima volta che hai cucinato per qualcuno?
«Le prime in assoluto sono state intorno ai 13 anni, quando la sera – invece di farmi un panino – mi divertivo a farmi un piatto di pasta a modo mio, sotto gli occhi meravigliati di mamma. La prima volta che ho cucinato per qualcuno avevo invece 18 anni: al mio compleanno della maggiore età, per la mia famiglia».

Hai altre passioni, come quella della cucina che è diventato il tuo lavoro?
«Amo fare tante cose: vela, pesca, tiro al piattello, motori. Credo sia molto importante per la testa, per staccare. La creatività ha bisogno di pause e devo dirti che alcune delle più belle idee per i miei piatti mi sono venute mentre stavo facendo altro».

In relazione al cibo, qual è il compito della cucina?
«Rispettare la materia prima mentre la si trasforma, valorizzandola, per  rispettare chi la consumerà. In Italia abbiamo materie prime che ci consentono di svettare a livello mondiale e abbiamo il dovere di saperle trattare».

Quando non cucini tu, cosa ami mangiare?
«Mangio di tutto, senza problemi. Da quando vivo in Abruzzo m’è pure presa una prevedibile voglia di arrosticini».

Fuori dal ristorante, sei di quelli “sequestrati” dagli amici quando ha un’ora libera per cucinare in qualche casa privata?
«Preferisco fare altro fuori dalla mia cucina. Il mio lavoro voglio e devo farlo con professionalità, per cui io cucino nella mia cucina, dopo aver indossato la mia giacca e maneggiando i miei coltelli. Una volta indossata la giacca mi trasformo, per me è un po’ come il mantello di Superman e quando ce l’ho addosso non c’è ansia che tenga né attacchi di panico: tutto è sotto controllo».

Uno scrittore ha il libro più caro, un regista il film. Il tuo piatto, al quale sei più legato?
«Tonno marinato alla soia, maionese al wasabi e cipollotto al coppo. Lo porto con me dai tempi de Les Pailottes e non ha mai fallito».

Dove ti sei formato, professionalmente parlando?
«Come ti ho detto, l’istituto professionale per il turismo è un brutto ricordo. Direi che mi sono formato sulla strada, cominciando dal primo gradino e da un altro settore della ristorazione e cioè dalla sala. Avevo 16 anni quando ho fatto la mia prima stagione da cameriere sul Lago di Garda e, da allora, sono fiero di poter dire che non sono mai stato un peso per la mia famiglia, essendomi sempre mantenuto da solo. Poi, stagione dopo stagione, la passione per la cucina avanzava e ho rettificato la mia strada, lasciando pensioni e alberghi stagionali a conduzione familiare per spostarmi negli alberghi a 4 e 5 stelle, per poi andare nei ristoranti stellati a fare esperienza. Quello che posso dire è che è un percorso complesso, fatto di duro lavoro quotidiano senza orari».

Il primo complimento ricevuto?
«Non ricordo il suo nome, ma ho chiarissime le sue parole. Era il figlio 17enne della proprietaria della pensione nella quale facevo la stagione a Milano Marittima. Avevo circa 23 anni. Lui non lavorava con noi, ma veniva a pranzare e un giorno gli preparai un piatto di spaghetti con le vongole. Mangiò e mi disse: “Continua così, che nella vita avrai successo”. Quel sorriso scanzonato ogni tanto riaffiora nei miei pensieri, perché per quanto fossero soltanto i complimenti di un ragazzino, ebbero il singolare effetto di spronarmi».

Cosa ci vuole per emergere in un panorama tanto articolato come quello della cucina?
«Sicuramente tanta testa. Il nostro è un lavoro che spinge al massimo le emozioni: si piange molto e si ride molto. Io lo dico sempre ai miei ragazzi: ricordatevi che tutti abbiamo pianto in cucina».

Tu hai pianto molto?

«Sì. Quando sei in una cucina stellata e non ti senti all’altezza e quando il tuo chef ti rimprovera, facendoti sentire quasi fuori posto. Ma siano benedette quelle durezze e quelle lacrime, che fuse insieme hanno prodotto l’attuale corazza, inossidabile, grazie alla quale oggi rispetto tutto e tutti, ma nulla mi spaventa».

Un lavoro vissuto in modo totalizzante, di solito finisce per occupare anche lo spazio dei sogni...
«Esatto! Mi piace dire che quando ero sous-chef del tristellato Heinz Beck, lavoravo 24 ore al giorno: 18 in cucina e 6 a letto, ripassandomi in sogno il servizio».

Ti capita anche adesso che sei tu lo chef?
«Diciamo che c’è stata una evoluzione. Adesso sogno di trovarmi in un posto in cui devo cucinare insieme ad ex colleghi e gente nuova e sono sprovvisto di ogni cosa. La prima cosa che faccio, quindi, è cercare la mia giacca, poi cerco i coltelli... e poi mi sveglio perché l’emozione diventa troppo forte!».

Tutto è cominciato, a livello onirico, alla corte di Heinz Beck...
«Non dimenticherò mai il primo giorno di lavoro nella sua cucina. Lo guardavo operare restando estasiato. Lui è uno che quando c’è il servizio, nonostante i suoi numerosissimi impegni, c’è sempre. Insomma: quando si alza il sipario, lui c’è. È stata la mia esperienza lavorativa più lunga: 5 anni passati insieme dividendo tantissime cose e restando completamente immerso in quella strepitosa realtà».

Cos’ha di speciale, oltre alle tre Stelle Michelin?
«Heinz Beck è un leader che sa riconoscere sempre il valore di chi gli sta di fronte, concedendogli il giusto spazio quando meritato. Poi è un raffinato psicologo, che sa parlarti sempre nel modo giusto e, soprattutto, sa prendere ognuno in modo diverso... che poi è il segreto per prendere tutti nel modo giusto».

Torniamo a te, come si tiene aggiornato uno chef stellato?
«Posso dirti come faccio io: provo ad andare alla riscoperta di materie prime dimenticate, quando addirittura non denigrate, riscoprendo così anche il territorio. Adesso, in carta fra i miei secondi ho la pecora, la papera e il collo di vitello: materie che in pochi calcolano. Diciamo che mi piace aggiornarmi riscoprendo e portando alla luce le cose buone che meritano di essere valorizzate».

Territorio e materie prime: l’accoppiata vincente?
«Calcisticamente parlando, il territorio e le materie prime sono le due ali che crossano a centro area e tu, chef, se vuoi essere bravo hai il dovere di fare il centravanti di razza e insaccare. Se il territorio e i prodotti sono buoni, è un continuo arrivare di cross millimetrici e tu fai meno fatica a buttarla dentro».

Le qualità più importanti che un giovane deve avere per intraprendere la carriera di cuoco?
«Costanza e voglia di migliorarsi fino all’ultimo giorno in cui cucinerà. Come tutti gli altri lavori, dipende da quanta voglia hai di spingere il tuo motore. Puoi fare l’impiegato della cucina, che timbra il cartellino, o puoi vivere questa come una esperienza totalizzante. Io non mi sono svegliato la mattina dicendo: farò lo chef stellato, ma mi sono detto che avrei fatto questo lavoro seriamente, seguendo un percorso di crescita stando al fianco di chi ne sapeva più di me. Ma stare al fianco non è roba da stage o corso di qualche giorno, è fatica quotidiana lunga anni e anni. In una cucina stellata entri sempre, giustamente, dal grado più basso per poi, se riesci, arrivare ai vertici. Durante il lungo percorso, devi sempre avere voglia di imparare e, giorno dopo giorno, calibrarti».

Cosa intendi per “calibrarti”?
«Io mi sono calibrato da Heinz Beck quando, dopo anni al suo fianco in qualità di sous-chef, ho realizzato dei piatti che lui ha ritenuto degni di essere proposti nel menu. Certo, ero pagato per fare il mio lavoro, ma quando inizi a vedere che uno chef del suo calibro si fida e magari propone qualche tuo piatto in carta, inizi a calibrarti».

Dopo la Stella Michelin confermata nel 2013 e 2014 a Les Pailottes di Pescara, la scelta di cominciare da zero un progetto, quello del “D.one”, arrivato alla Stella in meno di due anni...
«Sì. È una grande responsabilità, oltre al naturale orgoglio di averla presa. Io ho uno staff giovane, molto motivato e valido. Sono un papà per loro e li seguo anche fuori dal lavoro. Sono molto grato a tutti per il lavoro fatto, che ci ha permesso in brevissimo tempo di arrivare alla Stella. E ringrazio Nuccia De Angelis che ha creduto in me, volendomi fortemente».
 
Dal centro di Pescara al borgo antico di Montepagano. C’è voluto coraggio...
«Les Pailottes ha rappresentato un momento molto bello della mia carriera. Con la Riviera Adriatica sotto del 40%, negli anni della crisi piena, noi crescevamo quasi del 50%. Dopo un periodo così soddisfacente, ho abbracciato la sfida di creare dal nulla un posto nuovo conquistato dall’azienda agricola. Certo, il progetto del locale era bello, ma quel che mi conquistò la prima volta fu l’azienda agricola. Te l’ho detto: vengo dalla terra e so che tutto parte dalla terra».
 
Così hai riportato la Stella Michelin in Provincia di Teramo, dove mancava da ben 28 anni, visto che l’unico ristorante prima del “D.one” a potersene fregiare è stato “Beccaceci” di Giulianova, che l’ha avuta dal 1975 al 1989...
«Direi che la provincia teramana merita ampiamente questo riconoscimento, visti i molti piatti che qui sono nati e che diciamo “alla teramana”, “alla canzanese” e altro ancora. C’è una tradizione vivissima da queste parti, quindi spero che il ritorno di questa Stella possa illuminare un territorio forte e orgoglioso, che di recente ha saputo rialzarsi dopo le numerose ferite inferte da Madre Natura con terremoti, nevicate eccezionali e inondazioni».

Oltre a Heinz Beck, hai altri cuochi di riferimento?
«Il primo stellato con il quale ho lavorato, Andrea Accordi che a  Firenze aveva l’Onice. Io lavoravo al Savoy e facevo gli extra da lui e fu la sua cucina a farmi innamorare dell’alta ristorazione. Lui aveva 29 anni e io 25 e mi licenziai dal Savoy per stare un anno al suo fianco, vivendo la sua cucina 24 ore al giorno. Fu un anno bellissimo, intenso e pieno di emozioni. Infine, ammiro molto Marco Pierre White, il più giovane chef inglese ad aver ricevuto 3 Stelle Michelin. Gordon Ramsay, per dire, è un suo allievo. Mi piace professionalmente e mi piace anche quel suo essere un po’ fuori dalle righe, dicendo quel che pensa anche a brutto muso, quando serve».

La più bella soddisfazione ricevuta da un cliente?
«Luglio 2009, G8 a L’Aquila. Per i capi di stato cucinò Niko Romito, mentre le first lady pranzarono a Roma, in Campidoglio, e ci pensò la cucina di Heinz Beck. All’epoca ero il suo sous-chef e mi occupai dell’organizzazione del banchetto. La tensione era palpabile, anche perché c’erano una serie di prescrizioni relative alla sicurezza davvero stringenti, per cui dovevi pure stare attento a qualche cecchino se manovravi un coltello con troppa velocità. Insomma: era davvero stressante cucinare per le mogli dei grandi della terra, fra le quali c’erano Michelle Obama e Carla Bruni. La sera prima del pranzo io non dormii, così, dopo qualche ora rigirandomi sul letto, andai ad aprire le cucine alle 5 del mattino. All’epoca c’era la vecchia cucina e il frigorifero aveva toppato durante la notte. Non mi persi d’animo, perché l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e fa parte del nostro lavoro, e dalle 5 alle 8 rifeci le preparazioni da capo, perché avevamo materiale delicato come i fagottelli ripieni di carbonara. Quando arrivarono gli altri, avevo quasi finito. Caricammo i furgoni, andammo in Campidoglio e tutto filò liscio. Così, quando Michelle Obama – la moglie del Presidente degli Stati Uniti d’America – ringraziò con la famosa frase: “Thanks for your carbonara”, provai una grandissima soddisfazione».

Esiste un pericolo impostori o cialtroni nell’alta cucina?
«Come in tutti i lavori. E però, per fortuna, arrivati a un certo livello raccomandazioni o autoreferenzialità non bastano. Chi vale va avanti, chi non vale, come è giusto, non cresce restando una via di mezzo: un male sia per lui sia per il mondo della cucina».

Quali cucine mondiali ti affascinano?
«Giapponese, thailandese e cinese, ma mangiata in Cina».

Cosa vorresti che fosse, oggi, il sedersi a tavola?
«Un percorso fatto in armonia, che comincia con una bella location e durante il quale il cliente viene curato in ogni suo bisogno».

Dove va la cucina del futuro?
«Non lo so e non credo si possa prevedere. Non era previsto Ferran Adrià con il suo El Bulli, non era previsto René Redzepi con il suo Noma, non era previsto Massimo Bottura con la sua Osteria Francescana. Penso ci siano ancora universi inesplorati, ma non so quali. E forse questo ci tiene sempre in tensione e desiderosi di scoprirli e fare meglio».

Progetti per il futuro?
«Chiudere il cerchio aperto con il D.one con il Pagus, che sarà la nostra sala ricevimenti sempre a Montepagano e il Lieviti, che sul lungomare di Roseto degli Abruzzi sarà invece il posto delle pizze e delle insalate gourmet».


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DAVIDE PEZZUTO & D.ONE


26 maggio 2015
‘MONTEPAGANO 1137’: ALBERGO DIFFUSO E RISTORANTE GOURMET PER LANCIARE L’ANTICO BORGO.
https://www.roseto.com/scheda_news.php?id=13771

6 giugno 2017
CHEF AWARDS 2017: DAVIDE PEZZUTO È IL MIGLIORE PER ARTE E CREATIVITÀ!
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16 agosto 2017
A MONTEPAGANO NASCE ‘STRIP ADVISOR’, MERITO DI CHEF DAVIDE PEZZUTO...
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18 novembre 2017
AL D.ONE DI MONTEPAGANO LA STELLA MICHELIN, LA BELLA DEDICA DI CHEF DAVIDE PEZZUTO.
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Luca Maggitti
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