[Ricerca Avanzata]
Sabato, 4 Maggio 2024 - Ore 23:45 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

25 anni senza Faber (11.01.1999-11.01.2024)
LA TESI DI LAUREA DI GIORGIO DI BONAVENTURA PER RICORDARE FABRIZIO DE ANDRÉ / 5
La copertina dell’album Fabrizio De André Non al denaro non all'amore né al cielo, del 1971.

Giorgio Di Bonaventura.

Il quarto capitolo (La rivisitazione poetico musicale di Fabrizio De Andrè) nella parte finale e le conclusioni.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 25 Aprile 2024 - Ore 09:00

Un quarto di secolo fa (11 gennaio 1999) passava a miglior vita, sulla soglia dei 59 anni e per le conseguenze di un tumore ai polmoni, uno dei più grandi cantautori della musica leggera italiana: Fabrizio De André.
Questo sito intende omaggiare l'inimitabile artista genovese pubblicando la tesi integrale - elaborata in Letteratura Comparata (Facoltà di Scienze della Comunicazione) nell'anno accademico 2019/2020 - discussa da Giorgio Di Bonaventura, ex cestista abruzzese, classe 1997, cresciuto nel settore giovanile del Moncalieri e successivamente visto in canotta Roseto (A2), Latina (A2), Cento (A2), Teramo (B) e Luiss Roma (B), quest'ultima la franchigia con cui, nella stagione 2022/2023, ha conquistato la promozione in A2. Giorgio è stato anche atleta della Nazionale di Basket 3x3, disputando tornei internazionali e il Mondiale Under 23 in Cina nel 2019.
Buona lettura.


GIORGIO DI BONAVENTURA
Il regista poetico-musicale De André e la collina di Spoon River


Indice, Introduzione, Capitolo Primo (Rapporto fra Letteratura e Musica).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21272

Capitolo Secondo (La vita di Edgar Lee Masters e L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21277

Capitolo Terzo (La traduzione dell’Antologia di Spoon River in Italia).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21296

Capitolo Quarto (La rivisitazione poetico musicale di Fabrizio De Andrè).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21549


QUARTO CAPITOLO
LA RIVISITAZIONE POETICO MUSICALE DI FABRIZIO DE ANDRÉ
(Parte Finale)


Francis Turner, in pratica, dopo tre figure in qualche modo negative, cioè il matto che trova la morte in manicomio, il giudice nano desideroso di vendetta e il blasfemo ucciso in carcere, spezza la striscia in quanto egli riesce audacemente a superare il sentimento di invidia grazie all’amore che lo porta a lasciare «il cuore sulle labbra» dell’amata Mary, piuttosto che andarsene dopo una vita di rimpianti per non aver avuto la forza di osare; quindi, in questo caso, il riscatto assume la forma di una forte rivalsa verso la malattia, non certo verso gli altri uomini, incolpevoli della sua patologia.
Per quanto riguarda la pagina musicale, impossibile non apprezzare la voce di Edda Dell’Orso, con De André che, chitarra classica alla mano, si muove agevolmente all’interno di arrangiamenti che ricordano molto Morricone. Il sesto brano dell’album, primo del Lato 2, porta il titolo Un medico e corrisponde alla poesia numero quarantanove dello Spoon River, Il dottor Siegfried Iseman, a cui tocca l’onore di aprire il capitolo riguardante la scienza. Nel componimento di Masters, il medico parte con propositi apprezzabili, visto che vorrebbe applicare lo spirito cristiano alla medicina, ma poi, visto che il sistema, approfittando della sua bontà, lo mortifica, recapitandogli solo pazienti poveri ed impossibilitati a pagare, egli è costretto, per sostenere la famiglia, ad inventare un presunto elisir della giovinezza che, trattandosi di un escamotage truffaldino, lo condurrà prima alla galera e poi alla morte. Ecco i versi di Masters tradotti dalla Pivano:

Dissi, quando mi consegnarono il diploma, / dissi a me stesso che sarei stato buono / e saggio e coraggioso e caritatevole col prossimo; / dissi che avrei trasportato il Credo cristiano / nella pratica della medicina! / Ma, non so come, il mondo e gli altri dottori / subodorano ciò che si ha in cuore non appena si prende / questa magnanima risoluzione. / E il sistema è pigliarvi per fame. / Da voi non verranno che i poveri. / Voi vi accorgerete troppo tardi che fare il dottore / non è che un modo di guadagnarsi la vita. / E quando siete povero e dovete reggere / il Credo cristiano e la moglie e i figli / tutto sulla vostra schiena, è troppo! / Ecco perché fabbricai l’Elisir di Giovinezza, / che mi portò alla prigione di Peoria / bollato come truffatore e imbroglione / dall’integerrimo Giudice federale!

La trasposizione di Faber, in questa occasione, ricalca molto fedelmente il testo di Masters; l’unica vera differenza è che De André elimina il riferimento al «Credo cristiano» sostituendolo con un elemento totalmente inventato, che fa riferimento all’idea, legata all’adolescenza del medico, di guarire gli alberi di ciliegio quando essi si privano dei «fiori di neve» per dare spazio alle ciliegie rosse, come se i frutti fossero un segno di patologia:

Da bambino volevo guarire i ciliegi / quando rossi di frutti li credevo feriti / la salute per me li aveva lasciati / coi fiori di neve che avevan perduti. / Un sogno, fu un sogno ma non durò poco / per questo giurai che avrei fatto il dottore, / e non per un dio ma nemmeno per gioco: / perché i ciliegi tornassero in fiore, / perché i ciliegi tornassero in fiore.

Ma è legittimo, come sembrerebbe ad un primo ascolto, ritenere il medico protagonista del brano un perdente negativo e quasi cinico, così distante dalla logica deandreiana che ha sempre tentato di offrire un’idea di riscatto agli emarginati, agli oppressi, ai diseredati delle sue storie messe in musica? Molto preziose risultano a tal riguardo le acute osservazioni di Montesano:

«Per comprendere il vero significato di questa canzone si deve necessariamente fare riferimento ad alcuni ideali anarchici sempre presenti nell’opera del cantautore genovese come ad esempio: la necessità da parte del singolo di cercare l’aiuto degli altri e il dovere da parte della massa di aiutare chi con sforzi solitari tenta di portare benefici all’umanità. Visto in quest’ottica il dottor Isman torna a ricoprire il tipico ruolo di perdente positivo poiché il suo fallimento è dovuto all’insofferenza dei suoi colleghi medici e alla loro mancanza di solidarietà»  (1).

Concludendo, per quanto riguarda il versante musicale di Un medico, ecco l’analisi puntuale e dettagliata rilasciata da Luigi Viva:

«Musicalmente, l’introduzione è affidata a una frase di piano, la voce è accompagnata dalla chitarra dello stesso De André, con un flauto in sottofondo. L’orchestra è presente nel finale, dove si fanno nuovamente largo i plettri. La chiusura è affidata al piano, che con gli archi doppia la frase iniziale. La voce è ben amalgamata nel tessuto musicale, grazie anche a un eccellente missaggio»  (2).

La canzone successiva, intitolata Un chimico, si ispira alla seguente poesia, esattamente la numero diciotto dell’Antologia, cioè Trainor, il farmacista:

Soltanto un chimico può dire, e non sempre, / che cosa uscirà dalla combinazione / di fluidi o di solidi. / E chi può dire / come uomini e donne reagiranno / fra loro, e quali bambini nasceranno? / C’erano Benjamin Pantier e sua moglie, / buoni in se stessi, ma cattivi l’un l’altro: / ossigeno lui, lei idrogeno, / il figlio, un fuoco devastatore. / Io, Trainor, il farmacista, mescolatore di elementi chimici, / morto mentre facevo un esperimento, / vissi senza sposarmi.

In questo caso - dove la trasposizione in musica resta coerente con lo spirito poetico del “cantore dell’Illinois”, anche se quest’ultimo risulta più diretto e meno poetico del folksinger ligure - De André elabora il breve componimento seguendo il suo classico schema a sette strofe, dove è possibile individuare con precisione l’introduzione, il tema centrale e la conclusione. Come appare chiaro dalla poesia, Trainor il farmacista predilige solo miscelare gli elementi chimici, temendo che fare la stessa operazione con gli umani non sia attività foriera di risultati apprezzabili; a tal proposito, eloquente è la seconda strofa musicata dal “regista” Faber:

Da chimico un giorno avevo il potere / di sposar gli elementi e farli reagire / ma gli uomini mai mi riuscì di capire / perché si combinassero attraverso l’amore. / Affidando ad un gioco la gioia e il dolore.

Alla fine di una vita per certi versi repressa negli istinti più fisiologici dall’inflessibile diffidenza dello scienziato verso ciò che non è misurabile scientificamente, come appunto risulta la natura umana, egli trova la morte proprio in un esperimento finito male, lasciando spazio, come fa intendere De André nella strofa di epilogo, a dei dubbi su quale fosse l’approccio migliore da offrire al suo fugace passaggio terreno, visto che, per eccesso di diffidenza, Trainor il farmacista non ha mai assaporato l’amore:

Fui chimico e, no, non mi volli sposare. / Non sapevo con chi e chi avrei generato: / son morto in un esperimento sbagliato / proprio come gli idioti che muoion d’amore. / E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

In merito a questo brano, ecco le parole dello scrittore Guido Michelone:

«De André vuole semplicemente comunicare che la vita va vissuta, pur tra gioie e dolori. Se tanto bisogna morire, conviene avere una bella esistenza piena di sentimenti amorosi che potrebbero condurre alla sofferenza, ma anche e soprattutto alla felicità»  (3).

Caratterizzata musicalmente da una ritmica perfetta, resa particolarmente apprezzabile dalla brillante performance alla batteria di Enzo Restuccia, quest’ultimo padre di Marina Rei, e dai pregevolissimi vocalizzi di Edda Dell’Orso, Un chimico è l’unica canzone nella lunga carriera di Faber ad essere inserita, per volontà dei discografici, nei juke-box per il Festivalbar. Il penultimo pezzo dell’album, che poi risulta anche quello più lavorato dal punto di vista dell’adattamento, è intitolato Un ottico ed è ispirato al componimento poetico numero settantotto dello Spoon River, cioè Dippold, l’ottico. Nella poesia, Dippold è un oculista sui generis, visto che le sue lenti non migliorano la vista ma consentono agli occhi dei clienti di “creare” la realtà osservata; quindi, selezionare quali lenti proporre loro equivale a capire qual è l’idea del mondo più desiderata dai fruitori dei suoi prodotti:
Che cosa vedete adesso? / Globi di rosso, giallo, porpora. / Un momento! E adesso? / Mio padre e mia madre e le mie sorelle. / Si. E adesso? / Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili. / Provate questa. / Un campo di grano – una città. / Benissimo! E adesso? / Una donna giovane e angeli chini su di lei. / Una lente più forte! E adesso? / [...] Luce, soltanto luce che trasforma il mondo in un giocattolo. / Benissimo, faremo gli occhiali così.
La prima strofa creata da Faber tende a definire i contorni dell’oculista Dippold, al fine di porre la vicenda in una prospettiva che, come vedremo, lascia spazio ad una interpretazione “diversa” dalle intenzioni di Masters:
Daltonici, presbiti, mendicanti di vista / il mercante di luce, il vostro oculista, / ora vuole soltanto clienti speciali / che non sanno che farne di occhi normali. / Non più ottico ma spacciatore di lenti / per improvvisare occhi contenti, / perché le pupille abituate a copiare / inventino i mondi sui quali guardare. / Seguite con me questi occhi sognare, / fuggire dall’orbita e non voler ritornare.
Qual è questa prospettiva ce lo spiega chiaramente il giornalista Michelone:
«Suggerito dalla storia di Dippold, l’ottico di Spoon River che prepara occhiali speciali per mostrare insolite visuali, il brano viene spesso letto quale metafora di un pusher o venditore di droghe allucinogene come l’acido lisergico (o LSD) allora di moda; del resto la musica – caso unico nella discografia deandreiana – totalmente psichedelica, d’ascendenza prog-rock, fa pensare a un connubio tra suoni e stupefacenti che allarghino le “porte della percezione”, per usare un’espressione dei Doors»  (4).

Se è vero che non esistono documentazioni che possano legare la sensibilità artistica e umana di De André direttamente alla filosofia hippy, è altrettanto innegabile che la perentoria descrizione dell’ottico Dippold come uno «spacciatore di lenti» e la contemporanea scelta di un sound molto psichedelico, dove «la connotazione cantautoriale è nettamente messa in secondo piano degli arrangiamenti musicali»  (5), sembra strizzare l’occhio alle suggestive atmosfere della “Summer of Love” californiana. In effetti, ascoltando attentamente Un ottico, i frequenti mutamenti armonici, l’utilizzo di una chitarra elettrica distorta durante un intermezzo di pura matrice rock e la singolare tecnica di mixaggio usata, tale da rendere non proprio agevole la comprensione del cantato, non possono prescindere da quanto accaduto dall’altra parte dell’oceano alla fine degli anni Sessanta, quando una nuova controcultura - attraverso ideali come l’amore e la spiritualità ma anche attraverso un’apertura verso l’uso di stupefacenti e un innovativo stile musicale definito appunto psichedelico - si oppose ai valori tradizionali di quella classe dirigente che aveva provocato la drammatica disfatta della guerra in Vietnam e, con essa, la fine del “sogno americano”. Tornando alla trasposizione tecnica resa dall’artista genovese, dopo l’introduzione che abbiamo visto, Faber passa alla descrizione relativa a quattro clienti che si rivolgono al «mercante di luce» il quale, dopo aver proposto lenti che offrono scenari diversi, trova la soluzione - restando almeno nel finale coerente allo spirito poetico di Masters - individuando finalmente quelle che riescono a trasformare la cruda realtà in un giocattolo:

Quarto cliente – Vedo gli amici ancora sulla strada, / loro non hanno fretta, / rubano ancora al sonno l’allegria / all’alba un po’ di notte: / e poi la luce, luce che trasforma / il mondo in un giocattolo. / Faremo gli occhiali così! / Faremo gli occhiali così!

Dopo questo brano poco lineare e, a tratti, dal sapore sperimentale, arriva il delizioso pezzo che chiude Non al denaro non all’amore né al cielo; s’intitola Il suonatore Jones ed è ispirato al componimento omonimo, precisamente il numero sessanta dell’Antologia di Spoon River di Masters. Come abbiamo già anticipato, De André ritrova nella figura del violinista Jones, creata magistralmente dall’avvocato “stregato dalla poesia”, il suo alter ego ed è proprio a Jones, flautista nella trasposizione per ragioni di metrica, che egli offre il compito di tracciare la morale del “suo” riadattamento. Nei versi di Masters, Jones muore a novant’anni, appagato per come ha vissuto, dato che ha sempre cercato di infondere gioia agli altri:

La terra ti suscita / vibrazioni nel cuore: sei tu. / E se la gente sa che sai suonare, / suonare ti tocca, per tutta la vita. [...] Come potevo coltivare le mie terre, / - non parliamo di ingrandirle - / con la ridda di corni, fagotti e ottavini / che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa, / e il cigolìo di un molino a vento – solo questo? / Mai una volta diedi mano all’aratro, / che qualcuno non si fermasse nella strada / e mi chiamasse per un ballo o una merenda. / Finii con le stesse terre, / finii con un violino spaccato - / e un ridere rauco e ricordi, / e nemmeno un rimpianto.

Com’era avvenuto per il filone dell’invidia, anche per quanto riguarda quello della scienza Faber rinnova lo schema “tre più uno”, nel senso che, dopo tre figure discutibili, egli propone un personaggio positivo, capace di spezzare la striscia negativa e superare i limiti dei suoi predecessori. A tal proposito, ancora illuminanti le parole del critico Guido Michelone:

«Unica figura chiamata per nome, Jones resta pure il solo ad affermare la positività, senza rimpianti, di un’esistenza lunga e serena, perché il musicista meglio dell’ottico vede i messaggi reconditi nella realtà: più del medico, guarisce gli animi degli ascoltatori con un sorriso; a differenza del matto, trova un proprio efficace linguaggio per esprimersi; rispetto al malato di cuore gusta appieno la vita: in particolare sceglie la libertà scovandola soprattutto quando non è scritta o istituzionalizzata»  (6).

La rivisitazione in musica di De André si avvale di sei magnifiche strofe:
In un vortice di polvere / gli altri vedevan siccità, / a me ricordava / la gonna di Jenny / in un ballo di tanti anni fa. / Sentivo la mia terra / vibrare di suoni / era il mio cuore, / e allora perché coltivarla ancora, / come pensarla migliore. / Libertà l’ho vista dormire / nei campi coltivati / a cielo e denaro, / a cielo ed amore, / protetta da un filo spinato. / Libertà l’ho vista svegliarsi / ogni volta che ho suonato / per un fruscio di ragazze / a un ballo / per un compagno ubriaco. / E poi se la gente sa, / e la gente lo sa che sai suonare, / suonare ti tocca / per tutta la vita / e ti piace lasciarti ascoltare. / Finì con i campi alle ortiche / fini con un flauto spezzato / e un ridere rauco / e ricordi tanti / e nemmeno un rimpianto.

Si capisce che non è certo una cosa innaturale per il cantautore, che tra l’altro aveva suonato il violino fino ai dieci anni per poi innamorarsi perdutamente della chitarra, immedesimarsi totalmente nella figura del violinista (poi flautista) Jones, visto soprattutto che l’amore di quest’ultimo verso la vita non risente minimamente dell’influenza di chi gli gravita attorno, come si evince dalle parole di De André riportate nelle note di copertina dell’album:

«Per Jones la musica non è un mestiere, è un’alternativa, ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio»  (7).

Rimanendo orgogliosamente coerente con questi propositi, De André, morto in data 11 gennaio 1999 per le conseguenze di un tumore al polmone, ha cercato sempre più di “compenetrare” il suo modello di riferimento, sfuggendo alle logiche e ai compromessi commerciali, riducendo al minimo le apparizioni in pubblico e pubblicando i suoi ultimi, splendidi album a sei anni di distanza uno dall’altro. Tutto ciò, a riprova del fatto che la magistrale esperienza di rilettura e di trasposizione dell’opera di Masters, compiuta da De André e dal suo pregiatissimo staff tra il 1970 e il 1971, aveva lasciato segni indelebili non solo sul percorso artistico di Faber ma anche su quello umano, destinandogli in eredità un esempio – il suonatore Jones, l’unica figura del poema che funge da contrappeso alle altre e non mostra rimpianti - a cui ispirarsi per tutta la vita, quasi per assicurare al regista poetico-musicale un posto d’onore fra quegli ultimi che dormono sulla collina di Spoon River e che lui ha sempre dimostrato di rispettare profondamente nelle sue canzoni.


CONCLUSIONI

Come anticipato e tentato di argomentare già nell’introduzione di questo lavoro, Fabrizio De André, nell’immaginario collettivo ma non solo, viene da sempre etichettato come un inimitabile poeta della canzone, interessato prevalentemente a dare risalto alla qualità letteraria del cantato, alla dirompente e realistica forza suggestiva dei versi messi in musica, propri o altrui, al punto che la componente musicale ricoprirebbe, in maniera decisamente subordinata, la “mission” di diffondere nell’etere, possibilmente con un ritmo gradevole e coinvolgente, quanto composto nella dimensione intellettuale, con buona pace di tutti. Lo scopo di quanto ripercorso storicamente e approfondito in questa tesi è stato proprio quello di provare a dimostrare che questa tendenza a considerare l’artista genovese un rappresentante esclusivo del filone “poesia per musica” appare onestamente riduttivo e non rende giustizia alla sua sensibilità umana e artistica, al suo desiderio di offrire un prodotto sicuramente leale, potente ed evocativo dal punto di vista letterario ma anche ricercato e raffinato dal punto di vista musicale, evitando di attribuire, alla componente poetica o a quella musicale, una valenza primaria. Analizzando i momenti di crescita umana e artistica di Faber, che da insoddisfatto studioso del violino a dieci anni s’innamora della chitarra per farne quasi un prolungamento fisico e diventare un chitarrista di primissimo livello, abbiamo visto come egli, tra l’altro dotato di una voce magnetica e inconfondibile, abbia sempre riconosciuto la giusta rilevanza, il giusto peso alla pagina musicale, senza mai considerare quest’ultima una componente “ancillare” rispetto ai propri versi. Strada facendo, De André ha rifiutato nettamente l’etichetta, che puntualmente gli veniva attribuita, di cantautore e di poeta - come abbiamo visto, anche per motivi legati al conflitto ideologico che ha caratterizzato il passaggio fra gli anni Settanta e gli Ottanta e che ha portato molti artisti ad assumere una posizione di contestazione verso la legittimità della cultura dominante – preferendo definirsi un “cantastorie”, spesso impegnato nella complessa arte della traduzione (Brassens in primis, ma anche Cohen e Dylan) fino a riconoscersi completamente, proprio a partire dalla trasposizione dello Spoon River tradotto dalla Pivano, nello strategico ruolo di “regista poetico-musicale”. Ma la peculiarità più importante relativa a questa evoluzione professionale, non solo squisitamente tecnica, del folksinger genovese è quella di aver interiorizzato, attraverso il compimento di Non al denaro non all’amore né al cielo, una grande lezione per il futuro: che le collaborazioni di alto livello rappresentavano una condizione indispensabile per massimizzare le possibilità di confezionare album in grado di riconoscere la stessa importanza alle due componenti linguistico-espressive ed arricchire un canzoniere che, proprio grazie alle sinergiche contaminazioni nelle quali poesia e musica si combinano in una terza entità poetico-musicale, resta inconfondibilmente deandreiano. Come si evince chiaramente dal progetto artistico preso in esame, cioè la realizzazione della trasposizione dell’Antologia di Spoon River,  la poesia di De André germoglia da quella di Masters ma anche la pagina musicale di Faber scaturisce dall’elemento letterario per poi ricongiungersi su entrambi i versanti, il piano della forma e il piano dei contenuti; il fatto che Faber riesca a magnificare i personaggi di quelle poesie, cantando i “nuovi” epitaffi con intrigante leggerezza e arricchendo i protagonisti di fascino e vitalità, è l’ennesima riprova che l’artista ligure ha sempre desiderato assegnare uguale importanza a testo e canto, riuscendo a combinarli organicamente - magari in modo diverso ma sempre armonioso - in quella che La Via definisce opportunamente la terza dimensione poetico-musicale.

NOTE
(1)    R. Montesano, “E nemmeno un rimpianto”, Dall’Antologia di Spoon River a Non al denaro non all’amore né al cielo, Tavagnacco (UD), Edizioni Segno, 2017, p. 81.
(2)     Viva, Falegname di parole, cit., p. 84.
(3)     G. Michelone, Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Rimini, Edizioni Theoria, 2018, p. 134.
(4)     Ivi, p. 138.
(5)     R. Montesano, “E nemmeno un rimpianto”, Dall’Antologia di Spoon River a Non al denaro non all’amore né al cielo, cit., p. 87.
(6)     Michelone, Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, cit., p.72.
(7)     F. De André, dalle note di copertina dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio De André, Milano, Produttori Associati, 1971.

ROSETO.com
Stampa    Segnala la news

Condividi su:




Focus on Roseto.com
Roseto.com - Il basket e la cultura dei campanili senza frontiere. - Registrazione al Tribunale di Teramo N. 540 Reg. Stampa del 19.08.2005.
Direttore responsabile: Luca Maggitti   Editore: Luca Maggitti   Partita IVA 01006370678
© 2004-2024 Roseto.com | Privacy | Disclaimer Powered by PlaySoft