Via Seneca [Il privè di ROSETO.com]
USTICA

Un racconto del 1995.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Venerdì, 29 Giugno 2012 - Ore 11:30
Ustica era molto agitata, quella mattina dal cielo plumbeo. Luca aveva provato a sellarla, ma gli sbuffi della puledra baia, accompagnati da ripetute rampate, gli avevano fatto fare una veloce autocritica.
 
La puledra, lasciata al suo destino per molto tempo, quando era stata ripresa aveva mostrato insofferenza per l’insensibilità del suo padrone, per la trascuratezza subita.
Ustica era stata regalata a Luca, che l’aveva sempre trattata con distacco. Una sorta d’amore-odio per qualcosa di non agognato. La voglia di cavalcare era combattuta dall’impossibilità di starle vicino, perché quando pareva ormai tutto predisposto per una lunga escursione, qualche contrattempo veniva ad insabbiare la voglia.
 
Quella mattina Luca era però più deciso del solito. Aveva fatto visita a Ustica di buon mattino e, dopo averla carezzata un po’, aveva pensato che niente sarebbe stato meglio di una passeggiata col cielo plumbeo sopra a promettere grigia baldoria. Ustica non sembrava però essere d’accordo. La rabbia della puledra aumentava, il suo muso si girava continuamente verso Luca, ammonendolo di non concludere l’insellaggio. Luca, seppur zuccone, dopo un po’ aveva capito e lasciato cadere propositi e sella a terra. Aveva slegato la puledra dalla campanella del box e l’aveva liberata nel tondino.
Uno spettacolo: tuoni e fulmini erano usciti dai garretti di Ustica, che aveva cominciato a sgroppare, galoppando veloce.
 
La cavalla aveva vinto, prendendo i suoi diritti e facendo ritardare la partenza, visto che l’entusiasmo era durato più di qualche minuto. Ustica continuò a sgroppare, puntando forte gli anteriori e distendendo i posteriori in aria con forza. Un gesto elastico, simile al dritto di un pugile, che andava a infrangersi proprio sulla coscienza di quel padrone che l’aveva tanto trascurata. Piano piano, però, il galoppo dell’alterigia divenne trotto di dialogo. La puledra prese ad avanzare verso Luca, saltellando e respirando forte, mentre il collo, tenuto imperiosamente alto, dava ancora più teatralità alla testa.
 
Una testa dagli occhi mobilissimi, che continuava a cercare soluzioni nell’aria. La coda era tenuta ben tesa e alta, quasi a voler rinnegare le origini indigene e povere di sangue pregiato.
Ustica non era una cavalla di puro sangue, anche se i suoi genitori, Shafrir e Matra, erano due cavalli dai nomi altisonanti, tanto da far pensare il contrario.
 
Luca aveva ripassato mentalmente i nomi dei genitori di Ustica, credendo di averli già sentiti leggendo di armi, più precisamente di missili.
Circostanza cialtrona.
 
Il giovane richiamò la cavalla a sé, legandola alla longia e cominciando un lavoro leggero nel tondino. Dopo che la cavalla ebbe moderato le sue insofferenze, Luca poté sellarla. Quando l’ultimo riscontro fu sistemato, cavallina e cavaliere uscirono. Al piccolo trotto, la strada parve cosparsa di sapone.
La cavalla aveva su di sé un peso troppe volte dimenticato ed il suo equilibrio precario faceva ballonzolare Luca, non ancora a suo agio in sella. Il cavaliere incominciò subito ad applicare i dettami letti sui libri in serate di galoppo sognato, ripassandosi sconclusionatamente e d’un colpo tutti i precetti che Senofonte e Caprilli gli avevano tramandato. Più andava avanti e più si accorgeva che le nevrosi di un ragioniere in libera uscita non potevano combaciare con la passione degli illustri e passati maestri.
 
Ustica era ingovernabile e Luca la stava facendo solo innervosire, agendo ripetutamente sul filetto, con la falsa dolcezza dell’ignorante. Le narici della puledra cominciarono a dilatarsi. Il mantello schiumava già da un po’. La foga di Ustica colse Luca di sorpresa. Con un colpo del collo la cavalla reclamò indipendenza e prese le redini di cui aveva bisogno per liberarsi dalla mano del cavaliere, sgroppando e partendo al galoppo. Il cavaliere, seppur ballonzolato, provvide a mantenersi in sella, dopodichè cominciò a chiamare la cavalla, per cercare di fermarla.
 
Il tratto della strada che costeggiava il fiume era pianeggiante e comodo ed Ustica non voleva saperne di cedere. A nulla valevano le mille applicazioni frenetiche dei precetti sacri del cavaliere. Busto rilevato e arretrato, assetto più fermo nella sella. Niente di niente, il galoppo proseguiva, mentre piante e pensieri sfrecciavano ai lati del viso di Luca, divenuto paonazzo dal freddo e dalla sopraggiunta paura.
“Buona, su fermati, da brava!”.
 
Luca continuava a rimischiare quelle quattro parole, condendo l’insalata del cavaliere approssimativo con massicce dosi di sibili, per invitare il destriero alla resa, ma i posteriori della cavalla erano ancora in grado di spingere bene. Luca maledisse l’alimentazione iperproteica, tutte le volte che si era ripromesso di montare Ustica e non l’aveva fatto, i suoi convincimenti sulla scarsa resistenza del cavallo fuori allenamento.
 
La cavalla gli aveva preso la mano, come nelle migliori tradizioni del cavaliere della domenica. L’unica salvezza pareva essere la spiaggia, che di lì a poco sarebbe giunta a spezzare la verticalità del fiume. Il delta l’avrebbe salvato.
 
Con la consapevolezza di chi è lanciato su una macchina senza freni nel deserto e ha perso ogni speranza di far valere la propria volontà, Luca riprese in sella l’assetto leggero, sommandosi, ora sì, alla voglia di correre della puledra.
Le mani del cavaliere ora erano sul collo della baia e mille ostacoli venivano saltati col pensiero.
In pochi tempi di galoppo, il binomio aveva già vinto le più importanti classiche, sia di galoppo sia di steeple-chase e non c’erano Subotica o Miocamen che tenessero. Il fiume cominciò a promettere la fine, con la sua foce che si allargò progressivamente. Luca puntò decisamente la strettoia di un canneto, che lo avrebbe catapultato in spiaggia, dove finalmente Ustica avrebbe trovato un po’ di pace.
 
“Va bene piccola, fra un po’ ti fermerai!”, sussurrò un Luca eccitato, ben disposto solo dalla sicura fine della galoppata. Ma il galoppo era destinato a non fermarsi, perché Ustica era davvero in palla, le sue falcate non diminuivano ed il mare stentava a vedersi.
“Pure la bassa marea!”, pensò Luca, mal sopportando il fatto di dover ancora far galoppare la cavalla sulla sabbia, dannosa a lungo andare per i giovani tendini. Dopo qualche tempo di galoppo sulla sabbia, Luca strabuzzò gli occhi: dalla sua postazione, piuttosto sopraelevata rispetto a quella di un uomo in piedi, il mare non si scorgeva.
Il panico spinse le mani ad attaccarsi alla bocca di Ustica, che ormai aveva disteso il collo e non rispondeva più ai comandi.
 
I metri di spiaggia cominciarono ad essere molti e nessun segnale del mare si intravedeva. Luca entrò in crisi. Ricordò di essere nato in quei luoghi e di non aver mai dovuto aguzzare la vista per scorgere il mare. Il fremito delle narici di Ustica lo risollevò dalla nebbia dei suoi pensieri, facendolo di nuovo guardare lontano. La sorpresa più grossa si annunciò.
 
Un mucchio di rottami cominciava a scorgersi in lontananza e Ustica, attratta da quella figura nera che si avvicinava sempre più, non accennava a diminuire quello che ormai era diventato un galoppo irrazionale. Ustica cominciò a nitrire in modo spasmodico, accompagnando il suo richiamo con una accelerazione del galoppo. Il cumulo di rottami cominciò a scoprirsi e decifrare quell’ammasso su per Luca tragico.
 
Quella che in lontananza sembrava una grande “V” irregolare, cominciò ad assomigliare alla fusoliera di un aereo, centrata in pieno da un oggetto e spezzata proprio nel suo centro. Gli oblò dei finestrini, la scritta della compagnia aerea, i pezzi sparsi tutto intorno.
Ustica cominciò a rallentare finché, arrivata a pochi metri dal relitto, si fermò. Il suo respiro era affannato, la testa sussultava a cercare aria buona, mentre il sudore le aveva indorato il corpo.
 
Ustica guardò placidamente Luca mostrandogli le sue narici, dalle quali colava copiosamente sangue. L’ultimo fremito di Ustica, prima che l’assoluto della sua mutezza circondasse la scena, fece schizzare sangue tutt’intorno.
 
Luca scese di sella, capì in un attimo ed in un attimo tutto fu chiaro. Pensò a quel boato vigliacco di quattordici anni prima, a quell’indecenza che aveva illuminato la notte, spegnendo vite inconsapevoli. Ricordò le parole di Sartre, che dicevano che non si può essere liberi se non si è tutti liberi.
 
Pensò che non aveva diritto di cavalcare felice finché simili stragi avessero riposato impunemente sotto il mare. Ustica interruppe il tourbillon delle sue congetture, strusciandosi forte sulla sua spalla, macchiandolo così con il suo sangue. Già, il sangue.
Quel sangue che macchiava non solo Luca, ma un po’ tutte le coscienze, quel sangue che apparteneva a tutti, compresi i cavalieri veri, che fanno della lealtà un valore assoluto.
Luca si avvicinò al relitto, ne toccò i rottami, quasi ad esorcizzare la paura e guardò attraverso gli oblò: nulla e nessuno.
 
Allora accarezzò una sfinita Ustica, allentò la sella, tirò su le staffe e con lei al suo fianco si incamminò verso il fiume, per far ritorno a casa.
La giornata plumbea partorì una pioggerellina fine. Uomo e cavalla andarono via, dopo aver omaggiato con poche lacrime il luogo.
 
L’ultima a voltarsi verso il relitto fu Ustica, che emise un lungo fremito. A Luca parve di sentirci dentro una supplica: “Verità”.
 
Dedicato alla mia cavallina baia, chiamata Ustica in ricordo ed onore delle ottantuno persone esplose in cielo il 27 giugno 1980.
Ottantuno persone che, nonostante l’ultimo bagliore, aspettano ancora la luce della verità.
 
Roseto, 1995.
[Pubblicato su T.E. Tutto Equitazione. N.4, Aprile 1995.]
 
 
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