Serie A
SASSARI: GIOCANDO COME I BAMBINI.

La capolista, insieme a Varese, vista da Lorenzo Mazzaufo.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 28 Febbraio 2013 - Ore 14:45
Sfogliando il dizionario della lingua italiana leggo sotto la voce squadra il seguente significato: “gruppo di persone addette allo stesso compito, riunite e coordinate per uno scopo comune”. Ecco, nel basket, come negli altri sport, sulla carta ci sono tante squadre ma poche sanno esprimere il vero significato del termine.
 
Una di queste è Sassari che, da tre anni ad oggi, è diventata la realtà più bella del basket italiano tanto da raggiungere, nel fine settimana appena trascorso, il primo posto in classifica con l’altra realtà, dal passato però più glorioso, Varese.
 
Il segreto a mio parere sta tutto nell’entusiasmo che Sassari ha nel giocare la sua pallacanestro, quell’entusiasmo che provano i bambini. L’ho potuto constatare dal vivo con i miei occhi e con la mia voce.
 
Seguo infatti la squadra sarda da tre anni, per la precisione da quel nefasto (per me che sono teramano) tap-in di James White, su assist di Tsaldaris, a 0.67 centesimi di secondo che permise alla Dinamo di espugnare il Palascapriano, stagione 2010/2011. Commentavo la partita per Radio Latte e Miele Sardegna e da lì è nato un fantastico rapporto professionale che mi ha portato a fare le radiocronache di quasi tutte le trasferte sul continente italico, trasferte in cui raramente mi è capitato di vedere una partita giocata senza avere quell’entusiasmo infantile.
 
Figura chiave è Romeo “Meo” Sacchetti, più che un coach un padre. Lo capisci subito osservandolo, con quella corporatura enorme e protettiva che si estende in maniera positiva sui suoi giocatori. Pacato, mantiene sempre la calma, cercando di continuo il dialogo senza mai lasciarsi prendere da uno sterile nervosismo. Mi trovo d’accordo con Ernesto Ciafardoni che l’ha definito come uno dei migliori allenatori in circolazione e forse il più sottovalutato.
 
Se Sacchetti è il coach in panchina il cervello di tutta la squadra porta il nome e cognome di Travis Diener, da me soprannominato durante la radiocronache “Il Professore” per il suo modo di guidare i compagni di squadra. Si perché era dai tempi di Pozzecco che personalmente non vedevo un playmaker dalle grandi qualità tecniche e con una straordinaria visione del gioco (8 assist di media a partita). Una sorta di silenzioso direttore d’orchestra, che riesce a far esprimere al meglio tutti i suoi strumenti a disposizione, ed un campione dentro e fuori dal campo.
 
C’è poi l’altro Diener, Drake o “Il Drago”, con il suo baffetto da chitarrista folk rock, che è il killer della squadra. Un giocatore che mette tutto se stesso in partita e che, da quando è in terra sarda, sta vivendo probabilmente il punto più alto di tutta la sua carriera. Quinto realizzatore del campionato, sta giocando con una fiducia nei suoi mezzi pazzesca tanto che nell’ultima vittoria casalinga contro Pesaro ha sfiorato la tripla doppia con un 49 di valutazione individuale. Un dato mostruoso tenendo conto del fatto che il cugino Travis ha disputato la sua peggior partita da quando è in Italia (1 su 11 dal campo e -3 di valutazione). Se Sassari vince anche quando il suo playmaker gioca malissimo auguri!
 
L’altro giocatore che rappresenta al meglio l’entusiasmo del bambino è Bootsy Thornton, un ragazzino di soli 36 anni che sta vivendo in tutti i sensi una seconda giovinezza. Lo vedi giocare sereno, sempre con il sorriso sulle labbra, con quella strana ma mortifera meccanica di tiro. Un esempio di longevità ed intelligenza cestistica.
 
C’è poi il solidissimo gruppo d’italiani in panchina: il capitano Manuel Vanuzzo, Brian Sacchetti, Giacomo “Jack” De Vecchi e Mauro Pinton. A vederli non li daresti un centesimo, anzi dai nomi sembrano i componenti di uno di quei gruppi beat italiani degli anni ’60. Scherzi a parte sono loro la vera anima di Sassari, persone umili e generose che fanno da collante e aiutano i loro compagni di squadra più forti nei momenti di difficoltà. Loro si che sono bambini che si divertono giocando, consapevoli di vivere un sogno.
 
Non potrò mai dimenticare gara 3 dei quarti di finale playoff dell’anno scorso a Bologna. Ultima azione e rimessa per Sassari, tutti i giocatori bolognesi preoccupati nel marcare Drake Diener, palla in mano a Capitan Vanuzzo, bomba allo scadere, 3 a 0 netto e Sassari in semifinale. Quella è stata la vittoria che ha consacrato definitivamente questo splendido gruppo di gregari, consapevoli dei loro limiti, forti di questa consapevolezza.
 
A vederla giocare Sassari mi trasmette spesso l’idea di un’armata Brancaleone. Un’armata che, con i suoi tifosi al seguito, invade festante tutte le città italiane e tutti i palazzetti più importanti del basket tricolore sbeffeggiando in maniera goliardica e carnevalesca le corazzate Milano, Cantù e Siena. Mi viene in mente (e sorrido mentre scrivo) il quadro di James Ensor del 1889, L’entrata di Cristo a Bruxelles, in cui si vede questo trionfo di colori, di maschere, di allegro baccano infantile. Sassari è tutto questo, un’isola felice in un panorama spento e depresso.
 




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