La gestione delle società cestistiche negli anni settanta continuava ad essere un ibrido tra professionismo e dilettantismo, andando avanti con il reperimento degli sponsor come finanziamento, senza una strategia di medio lungo periodo.
L’intervento economico imprenditoriale, pertanto si limitava a contratti commerciali di pubblicità, per tentare di aggirare i limiti morali che i consumi e lo sport avevano in Italia, contrari ad un suo sfruttamento per trarne profitto, con i club gestiti da uomini di basket intesi in chiave tecnica. [1]
L’incremento dei costi del basket di vertice, sempre più vicino ad un livello professionale, non induceva le aziende ad assumere una gestione diretta che non garantiva un ritorno effettivo: tuttavia le società cestistiche non erano state capaci di creare strutture manageriali legate allo sport indipendenti ed autonome. Si era lontani da una gestione manageriale dei club, con le eccellenti esclusioni di Milano e Varese con Bogoncelli e Borghi, a cui si aggiungeva l’avvocato Gianluigi Porelli, che aveva preso in mano la Virtus Bologna nel 1968 andando verso un modello di gestione societaria analoga.
Nel 1974 intanto ci fu un caso di spostamento di società da una città ad un’altra, laddove si poteva ampliare il bacino di utenza, la visibilità e trovare strutture migliori. La Saclà Asti passò a Torino (fondendosi con l’Auxilium ammessa al campionato di Serie A2 di nuova istituzione) a causa dell’indisponibilità di un impianto di gioco omologato per la Serie A. Il presidente, Carlo Ercole, proprietario della ditta alimentare Saclà, riguardo la gestione, si definiva non invadente, sebbene esigesse di partecipare alle scelte di fondo. Il direttore sportivo De Stefano aveva libertà di azione, sebbene rispondesse a lui del suo operato. [2]
Era una situazione comune a molti club di provincia, con le aziende sponsorizzatrici legate comunque al territorio, e che spesso acquisivano rilevanti quote societarie, anche se in questo caso si andava anche verso logiche di espansione anche del marchio.
A Napoli, nell’alveo delle politiche di rilancio del sud inserite nel pacchetto per il mezzogiorno, la Fag, produttrice di cuscinetti volventi (quindi beni non di massa) era animata da una politica di aiuti statali verso chi contribuiva al rilancio sociale del napoletano, in questo caso incentivando il tempo libero dei lavoratori. [3]
Nel 1973 Porelli instaurò il sodalizio con la ditta bolognese di televisori Sinudyne (che sponsorizzò la Virtus Bologna per un decennio, i cui fondatori Antonio Longhi e Bruno Berti detenevano già una importante quota societaria del club).
Nel 1973 ci fu l’uscita di scena della Simmenthal che lasciava il basket dopo anni di grandi successi, perché la gente ormai identificava il nome più con la squadra milanese che con la carne in scatola. Il nuovo abbinamento dell’Olimpia fu con la Innocenti.
Il 1975, con la crisi congiunturale, vi fu l’abbandono dell’altro marchio storico Ignis: Varese passò allo sponsor Mobilgirgi. La famiglia Borghi aveva ceduto l’impresa alla Philips, ma restava presidente della squadra di basket. Garrit Jeelof, a nome della Ignis, di fronte alla richiesta di adeguamento del budget della sponsorizzazione da 230 a 300 milioni annui, si era fatto indietro a causa dell’andamento dell’economia. Senza la struttura aziendale alle spalle, Borghi rimaneva alla guida del club, senza tuttavia rappresentare la nascita di un’imprenditoria legata allo sport, ma il mantenimento del modello gestionale familiare, ormai inadatto all’economia di mercato, applicato al mondo del basket. [4]
Se un marchio lasciava un altro arrivava: la Victoria Libertas Pesaro venne acquisita dalla Scavolini (la locale azienda di cucine che era in grande espansione nazionale), che oltre allo sponsor assunse la proprietà del club, sullo schema già visto a Varese. Da alcuni anni, un’altra impresa del settore, la Snaidero, aveva avviato in maniera analoga il sodalizio con Udine.
Intanto in Brianza si costituì un modello che porterà la Pallacanestro Cantù fin sul tetto d’Europa, basato sulla valorizzazione di giovani talenti del vivaio con l’ideazione del College Cantù (in cui si formarono campioni come Marzorati, Della Fiori, Recalcati e Riva), sfruttando appieno un ambiente che vive di pallacanestro. Il tutto sotto la guida dello “sciur Aldo” Allievi, imprenditore nel settore della distribuzione bevande, che da dirigente esecutivo aveva preso di mano nel 1969 la società dalla famiglia Casella, divenendo proprietario unico.
Restava il problema dei palazzetti, per cui le società non avevano la solidità per costruirne di propri. Era alla mano delle amministrazioni pubbliche che si chiedeva aiuto: quasi sempre i nuovi palasport (sulla scia del boom edilizio degli anni settanta) gli anni settanta erano finanziati dal denaro pubblico e gestiti dai Comuni, a fronte di alti costi di mantenimento. Siena, anch’essa con uno sponsor locale come la Sapori, andava, in questo senso, in controtendenza: supportata dalla Polisportiva madre (la Mens Sana) e dalla banca cittadina Monte dei Paschi (che concesse un mutuo vantaggioso), aveva costruito in pochi anni due palazzi dello sport, autofinanziandosi. [5]
In generale non c’era alcuna innovazione da un punto di vista imprenditoriale e gestionale delle squadre, legate sempre a ondate di nuovi sponsor e forme di mecenatismo.
NOTE
[1] Cfr. S. Battente, T. Menzani, Storia sociale della pallacanestro in Italia, pag. 176.
[2] Ivi, pag. 179.
[3] Ivi, pag. 180.
[4] Ivi, pagg. 181-182
[5] Ivi, pag. 182.
[continua]
[BASKET & TELEVISIONE]
Il basket italiano in TV, dagli Anni ’50 ad oggi, splendidamente raccontato da Stefano D’Andreagiovanni.
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Stefano D’Andreagiovanni
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