Lorenzo Rastelli, cinefilo classe 2000, inizia la sua collaborazione con ROSETO.com parlandoci di ‘Viaggio a Tokyo’, film del 1953 del regista e sceneggiatore giapponese Yasujiro Ozu.
Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 25 Febbraio 2017 - Ore 18:00
Salve, mi chiamo Lorenzo, nel 2017 compirò 17 anni e, oltre ad una grande curiosità musicale, nutro una grande passione per il Cinema.
Negli ultimi mesi della mia vita posso dire di aver avuto l’occasione, partendo dallo straordinario “C’era una volta in America“ (Sergio Leone – 1984), di vedere un’enorme quantità di film. Alla base di questa scelta si trova un’attrazione sempre maggiore per il Cinema in ogni suo aspetto, senza alcun pregiudizio, ed è proprio questa passione che oggi mi spinge a scrivere questo primo articolo sul film che mi ha “cambiato” la vita e che mi ha fornito una concezione diversa dell’arte che preferisco.
Parto dal presupposto che, nella mia ancor giovanissima formazione come cinefilo, la produzione orientale ha rivestito un ruolo fondamentale perché provo profonda ammirazione per la tipologia, spesso usata, di impianto narrativo, sensibilmente lontana dai nostri inutili eccessi (ovviamente sto generalizzando, ci sono capolavori anche in Occidente, ci mancherebbe!) e per la dicotomia tra bene e male per cui anche colui che compie nel corso della storia atti positivi può essere un uomo squallido nella vita di tutti i giorni.
Fatta questa lunga e doverosa premessa, occorre precisare che, tra i moltissimi film orientali estremamente validi, quello che mi ha colpito a tal punto da diventare il mio preferito in assoluto è “Viaggio a Tokyo” (1953) del regista e sceneggiatore giapponese Yasujiro Ozu (1903-1963).
Per illustrarvi la maestosa perfezione di questa pellicola, essendo un film non estremamente conosciuto anche per via della sua distribuzione avvenuta in Italia solo di recente, occorre soffermarsi brevemente sul soggetto alla base dell’opera. Due anziani signori, Shukichi (Ryū Chishū) e Tomi (Higashiyama Chieko), partono da Onomichi, località della campagna giapponese, per andare a trovare i figli che vivono a Tokyo.
La reazione dei figli sarà tuttavia inaspettatamente fredda, infatti l’unica persona che si occuperà veramente dei suoceri sarà Noriko, sensibile moglie del figlio morto in guerra, che non solo farà visitare ai parenti la città ma ospiterà anche la suocera quando torneranno da un breve soggiorno alle terme che i figli avevano organizzato subdolamente per “sbarazzarsi” di loro.
Il film si conclude con la morte della madre a causa di un malore avvertito durante il viaggio di ritorno e con il doveroso ritorno dei figli a Tokyo; non a caso, dopo il funerale, Noriko sarà l’unica a trattenersi ancora per alcuni giorni a Onomichi.
Una tale sceneggiatura potrebbe essere tacciata di banalità da uno spettatore disattento, ma non bisogna dimenticare l’appartenenza di questo film al filone degli Shomingeki ovverosia i film sulla gente comune, un genere a cui Ozu dedicò gran parte della propria produzione.
Uno degli aspetti che ha contribuito a rendere immortale questa pellicola è la sua capacità di partire da un qualcosa di semplice, e quindi apparentemente comprensibile a tutti, per poi arrivare a trattare dei temi universali: la distanza tra le generazioni che, come questo capolavoro mostra perfettamente, si acuisce quando subentra l’inaridimento dell’animo causato dalla costante ricerca di un apparente miglioramento della vita; l’idea che non siano tanto importanti i legami di sangue ma l’affetto che si viene a creare in un rapporto umano.
Prima di passare alla descrizione di alcune scene per fornirvi una visione più ampia del film, vorrei provare ad analizzare questa pietra miliare anche da un punto di vista tecnico: realizzato in un bianco e nero a tinte chiaroscurali, di cui oggi rimane un restauro in positivo poiché il negativo originale andò del tutto bruciato, il film viene girato prevalentemente in ambienti interni con la sacra macchina da presa fissa, poggiata sul pavimento; inoltre, in quei rari momenti in cui il regista ci porta all’esterno delle abitazioni, viene dato risalto non tanto ai grandi edifici quanto ai fili d’erba e al rumore degli insetti, come a voler sottolineare il ruolo primario che riveste la normalità della vita umana rispetto ai grandi eventi.
Per un’analisi tematica più approfondita è necessario prendere in esame, a mio modesto avviso, alcune sequenze che sono estremamente rappresentative dei temi centrali del film. La prima scena che vorrei analizzare è l’incontro dei nonni con i nipoti che sembrano disinteressati, se non addirittura infastiditi, da questa sorpresa.
Il culmine si raggiunge però nel momento in cui la nonna chiede ai ragazzi di uscire in cortile con lei… infatti, mentre il più grande dei nipoti, nonostante le pressioni della madre, si rifiuta di andare con la nonna, il minore, una volta uscito sotto costrizione, resta a debita distanza dall’anziana e si rifiuta di rispondere alle sue domande.
Questa “distanza” ad una prima superficiale analisi potrebbe sembrare dettata dal fatto che i nipoti non vedono spesso i nonni e quindi è impossibile che si crei un legame ma questa freddezza affettiva, in realtà, è causata anche dai figli i quali, non gradendo la visita dei genitori, cercano di costruire un rapporto artificiale tra nonni e nipoti contribuendo così a rendere sgradevoli gli anziani agli occhi dei ragazzi.
Un'altra scena degna di nota, che esemplifica la vacuità del legame di sangue se messo a confronto con il vero affetto, è l’accoglienza che Noriko riserva ai suoceri quando pranzano nella sua dimora… infatti, pur non avendo materialmente molto da offrire, la vedova mette a disposizione il meglio che possiede, a differenza dei figli che non ritengono necessarie per i genitori tante celebrazioni e quasi li mortificano, costringendoli ad “accontentarsi”.
La terza scena che mi accingo ad analizzare è riassuntiva non solo di uno dei temi centrali del film, ma anche di un “mood” che sarà preponderante nell’ultima parte della filmografia di Ozu, cioè quella meno influenzata dal Cinema hollywoodiano e più radicata nelle tradizioni del suo paese: la rassegnazione di fronte alle delusioni della vita e all’ineluttabile fluire del tempo. La scena in questione è quella in cui l’anziano Shukichi si ritrova con alcuni amici d’infanzia al bar per bere qualcosa.
Una tale occasione “dovrebbe” essere simbolo della gioia di rincontrarsi e condividere l’andamento dell’esistenza… invece, quando il discorso si sposta sui figli, il saggio regista giapponese lascia emergere l’ineluttabile rassegnazione dei vecchi causata sia dalla professione dei figli, che non soddisfa i genitori, ma soprattutto dall’amara consapevolezza di avere sviluppato un rapporto privo di qualsiasi umanità e di vivere in una società troppo occupata a correre continuamente dietro all’ideale di un fantomatico progresso per occuparsi anche di coloro che non hanno più la freschezza giovanile… ed è esattamente in quel momento che l’alcol, invece che essere utilizzato per brindare alle gioie della vita, si trasforma nell’unica via di fuga da una mesta constatazione dell’essere diventati, sulla via del tramonto, scomodi e superflui.
Fuor di retorica, mi concedo una digressione sul finale che trovo sia un’eccellente rappresentazione dell’ipocrisia nonché della miseria umana: l’ipocrisia emerge nel momento in cui la figlia, dopo essersi prodotta in un plateale e roboante pianto durante il funerale, palesa, in maniera molto indelicata, il suo interesse per gli abiti più pregiati della madre. Un frammento significativo in cui, invece, emerge l’aridità dell’essere umano si materializza nel momento in cui il figlio minore adduce come motivazione della sua partenza una partita di baseball.
Aggiungerei che la sconfitta dell’uomo di fronte al fluire ineluttabile del tempo è riscontrabile nel dialogo in cui la dolce Noriko tenta di giustificare la repentina ripartenza dei figli, nei momenti immediatamente seguenti al funerale della madre passata a miglior vita, adducendo come motivazione la naturale disgregazione del rapporto genitori – figli, complice anche lo scorrere rapido della vita. Questo si evince soprattutto nell’ultima frase del film pronunciata da Shukichi, che riferendosi alla moglie scomparsa, esclama tristemente “Senza di lei le giornate mi sembrano più lunghe”.
Insomma, in questa imperdibile opera la grande lezione del maestro giapponese Ozu (1903-1963) – venerato, fra gli altri, particolarmente dall’acclamato regista tedesco Wim Wenders (1945) – consiste nel ricordare a tutti noi che la sconfitta dell’uomo nei confronti dell’inevitabile fluire del tempo e la conseguente frammentazione dei rapporti umani possono essere combattuti con il rispetto, il dialogo, la condivisione, la riconoscenza e il perdono… in una parola, con l’Amore, quello con la A maiuscola.
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