Olimpiadi: storie di soprusi e rivalse.
BARCELLONA 1992: IL ‘WHAT IF’ JUGOSLAVO.

Saltano le Olimpiadi di Tokyo? Niente paura, c’č Emanuele Di Nardo con le sue ‘storie a cinque cerchi’. Puntata 08.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedě, 11 Agosto 2020 - Ore 19:30

La rubrica che ha accompagnato la nostra estate giunge al termine. Abbiamo visto quanto e come la politica sia entrata nelle dinamiche olimpiche. Città del Messico, Monaco e Mosca hanno squarciato il velo dagli occhi di milioni di spettatori, animati ancora dai sani principi dello sport ma incapaci di ammettere che la loro visione disincantata dei Giochi stesse crollando come un castello di carta di fronte alla tempesta della Guerra Fredda. Eppure un punto di non ritorno, oserei dire drammatico, arrivò pochi anni dopo: Barcellona 1992.

I Giochi olimpici spagnoli avrebbero dovuto rappresentare la consacrazione della pallacanestro maschile visto che il commissioner NBA, David Stern, sollecitato dalla FIBA, guidata dal serbo Bora Stankovic, per la prima volta nella storia acconsentiva alla partecipazione dei professionisti statunitensi. Si trattava di un’apertura epocale: nasceva il “Dream Team” di Jordan, Magic e Bird. Per quanto quella squadra fosse semplicemente invincibile, da questa parte dell’Oceano c’era solo una nazionale in grado di minacciare il monopolio americano: la Jugoslavia. Ma la Federazione, dopo la morte del maresciallo Tito (1980), promotore della cooperazione tra i popoli slavi, visse una turbolenta stagione politica con la conseguente e logorante guerra fratricida. In modo particolare i nazionalisti serbi, guidati da Slobodan Milošević, riportarono in auge il tanto desiderato programma pan-serbo volto all’egemonizzazione di tutti i popoli slavi sotto l’egida serba per l’appunto. In risposta al risveglio patriottico serbo, la Croazia di Tudjman rivendicò l’autonomia da Belgrado. Il quadro, qui molto semplificato, ridefinì gli stessi equilibri interni dello sport. Infatti la nazionale, a lungo considerata come l’oasi di pace del deserto bellico, progressivamente assorbì il clima di tensione fino alla rottura finale.

Lo sport, nei piani di Tito, doveva essere il collante tra le varie Repubbliche e così fu per molti anni. In modo particolare la nazionale jugoslava si stava affermando progressivamente proprio alla vigilia della guerra civile. La consacrazione arrivò ai Mondiali a Buenos Aires 1990, in cui i plavi dominarono la competizione, guidati dal serbo Divac e dal croato Petrovic. Ma proprio in terra argentina si consumò la prima tragedia. Premettiamo che, prima di prendere parte alla spedizione mondiale, tutti i cestisti slavi siglarono un patto di non strumentalizzazione dentro lo spogliatoio. Purtroppo quella promessa non sarebbe stata mantenuta. La stampa croata definì efferato e gravissimo il gesto che Divac avrebbe compiuto durante i festeggiamenti quando gettò a terra la bandiera croata sventolata da un tifoso festante. In realtà quel gesto racchiudeva giorni di forte tensione etnico-sociale, ormai ingestibile. Al punto che sei mesi dopo, il 23 dicembre 1990, la Slovenia e, sulla sua scia, la Croazia promossero un referendum per l’uscita dalla Federazione, con l’ultimatum fissato per il giugno 1991. In quel periodo si disputavano gli Europei a Roma e, mentre Petrovic disertò in difesa dei suoi compatrioti impegnati al fronte, nel corso della manifestazione lo sloveno Zdovc dovette abbandonare la squadra perché la neonata Slovenia non era più rappresentata dai colori jugoslavi.

Mentre a Barcellona erano in atto i preparativi, il dramma jugoslavo entrò a pieno diritto nei Giochi. Il 30 maggio 1992 l’ONU si pronunciò con durezza contro la Jugoslavia e impose nei confronti della Federazione un embargo commerciale e finanziario. Una decisione che non fermò il governo di Milošević (anzi che accentuerà il carattere autocratico) ma che ebbe un peso forte almeno sul piano sportivo. Il presidente del CIO Juan Antonio Samaranch stabilì l’ammissione solo degli atleti jugoslavi delle discipline individuali.  Diverso fu il discorso riguardante gli sport di squadra. Non essendo stata trovata una soluzione tanto efficace per salvare almeno l’aspetto sportivo, si optò per la scelta più drastica: l’esclusione. A livello olimpico, a farne le spese furono le discipline in cui la nazionale jugoslava era maggiormente competitiva e che videro sparire di colpo una delle candidate al titolo ovvero la pallanuoto maschile (medaglia d’oro ai Giochi di Seul 1988 e Los Angeles 1984, ai Mondiali di nuoto di Perth e agli Europei di Atene 1991) e la pallacanestro.

La possibilità di assistere ad uno scontro tra le nazionali dell’ex Jugoslavia fu preclusa ma la Croazia, guidata dal leader Dražen Petrović, giocò a livelli sublimi. La squadra, affidata al tecnico Petar Skansi, disponeva di atleti di livello mondiale come Radja e Kukoč, grazie ai quali riuscì a raggiungere la finale, contro gli USA. Non ci fu partita perché gli statunitensi erano di un livello superiore (la gara finì 117-85) ed è molto probabile che nemmeno una Jugoslavia al completo avrebbe potuto cambiare il risultato. Tuttavia, se la sola Croazia arrivò alla medaglia d'argento, furono in molti a credere che la nazionale campione del mondo a Buenos Aires avrebbe potuto davvero sconfiggere il Dream Team, specialmente Vlade Divac:

“Vidi ovviamente la finale ma per tutta la durata della partita non fui in grado di pensare ad altro se non ad una cosa: cosa sarebbe successo se fossimo stati ancora tutti insieme? Paspalj, Zdovc ed il sottoscritto. Con tutto il rispetto per gli altri ragazzi della formazione croata ma noi tre insieme a Petrović, Radja e Kukoč saremmo stati inarrestabili. È una domanda che non avrà mai risposta e personalmente mi porterò questo dubbio per sempre”.

Le Olimpiadi di Barcellona lasciarono un marcato retrogusto amaro nella bocca di molti amanti della pallacanestro, generando il più grande “what if” della storia. Ma, soprattutto, segnarono la fine del sogno jugoslavo: uomini cresciuti insieme, smisero di passarsi la palla e iniziarono a lanciarsi delle bombe.

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Emanuele Di Nardo
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