Cristian Palmieri, fotografo di grande sensibilità, passa a prendermi. Andiamo al concerto di Setak, al Teatro Massimo di Pescara.
In macchina, Cristian ascolta i Talking Heads. Sento la voce del poliedrico David Byrne e ripenso a quando, nel 1989, il leader della band si gettò a capofitto nella musica tradizionale sudamericana, ricavandone lo splendido “Rei Momo”.
Poco dopo di lui, nella seconda metà degli Anni 90 del secolo scorso, Ry Cooder andò a Cuba per valorizzare i “Super-Abuelos” e cioè i super nonni cubani come Compay Segundo o Ibrahim Ferrer, diventate star mondiali grazie al film-documentario “Buena Vista Social Club” girato nel 1998 da Wim Wenders, convinto da Cooder a seguirlo in una Cuba che aveva assoluto bisogno di fermare per sempre quella fantastica compagnia di allegri matusalemme della musica.
Altri sconfinamenti musicali sono quelli del geniale Vinicio Capossela, che ha suonato con la Kocani Orkestar, banda macedone che ha dato un sapore balcanico ad alcuni suoi memorabili concerti (“Liveinvolvo”, 1998) o Goran Bregovic, disinvolto nel passare nel suo ”Ederlezi” (sempre nel 1998), dal fado di Cesaria Evora cantato in “Ausencia” alle letture di Johnny Depp in “American Dreamers” e dall’“unz unz” balcanico di “Kalasnjikov” all’organetto di “Talijanska”.
Organetto che mi ricorda il compianto virtuoso maestro di Casoli di Atri Pietro Tavani, da me ribattezzato “Jimi Hendrix del ddù bbòtte”, maestro costruttore e suonatore dello strumento musicale che, da solo, potrebbe raccontare generazioni di abruzzesi.
Roseto, Pineto, Silvi, Montesilvano, Pescara. Calmi e tranquilli fendiamo la Strada Statale 16, mentre i ricordi di queste esperienze in musica si intrecciano e poi dipanano, scorrendo come la strada percorsa dall’ibrida automobile del buon Palmieri.
La musica e la sua importanza, la musica e le sue contaminazioni, la musica e il suo linguaggio universale, nato prima e perciò più potente di quello delle varie lingue che aspergono pensieri sull’orbe terracqueo facendo comunicare le persone, ma facendole pure litigare assai! E se le guerre nascono dalle parole e dalle conseguenti azioni, sto provando a ricordare quante guerre ha provocato la musica...
Stiamo andando a sentire un cantautore – Nicola Pomponi, in arte Setak – che ha molto vissuto anche in termini di esperienze umane. Dal basket praticato in tenera età nella natia Penne al tennis, che lo ha portato a Roma in qualità di promessa. Poi una spalla ribalda e la scelta di scambiare racchetta con chitarra, facendo da session man a importanti artisti italiani. Infine, la strada maestra: il bisogno di fare letteratura raccontando le cose del mondo nella lingua dell’anima – parafrasando Benedetto Croce – e cioè il dialetto.
Nel suo caso, il dialetto abruzzese. Che non esiste, perché ogni campanile ha le sue inflessioni e coloriture, le sue parole e i suoi termini dovuti all’appartenenza clanica. Ma un sincretismo si può tentare. E Setak, il sui nome d’arte deriva dal setaccio con il quale la sua famiglia passava la farina, può raffinare i linguaggi di montagne e colline, valli e marine, codificandone uno tutto suo. Una sorta di Esperanto abruzzese, in grado di dare significato e cromature ai pensieri di questo uomo che con la sua chitarra è un mirabile pontefice, non amando muri e steccati.
Ricordandomi le altre volte in cui l’ho visto esibirsi, non posso non pensare a Setak come a un antico poeta improvvisatore.
Gente come quella descritta dalla scrittrice inglese Anne Macdonell nel suo delizioso “Negli Abruzzi”, che racconta di un suo viaggio nella nostra regione nel 1907 e delle cose che aveva imparato e dei personaggi che aveva conosciuto e dei quali aveva sentito parlare, come Serafino Aquilano (Serafino de’ Cimminelli; L’aquila, 1466 – Roma, 1500), del quale scrive: «Serafino fu un uomo errante di genio, noto a tutte le corti italiane, di Milano, di Urbino, di quella di Federico d’Aragona e di quella di Cesare Borgia che lo predilessero per i suoi meravigliosi versi estemporanei, che cantava accompagnandosi con il liuto, e lo temettero non poco per la sua satira, libera e coraggiosa».
Sempre nel libro, edito nel 2004 da Adelmo Polla, la scrittrice racconta: «Nobili, borghesi, dotti, contadini, pastori, tutti usarono improvvisare, ed essi, ma principalmente i contadini, improvvisano tuttora. In una notte della passata primavera, dopo una piccola festa in Scanno, i musicanti fecero una serenata al mio ospite e alla sua famiglia sotto la finestra, prima che questi andassero a casa; sull’aria della “partenza del pastore”, il cantore fece un canto per metà vecchio e per metà nuovo, con allusioni alle vicende della sera, con saluti ad ogni membro della famiglia, ed una stanza particolare dedicò all’inglese. Il tutto combinò con sorprendente prontezza e senza errori nel ritmo, mentre la chitarra faceva la sua parte, non meno galantemente, enfatizzando ogni sentimento, gaio o serio, con eguale tempestività. L’improvvisatore in questo caso era un giovane biondo, dagli occhi azzurri, dal viso rossiccio, come un fratello di uno Scozzese del nord, un contadino che faceva lavori occasionali nel paese e ultimamente aveva lavorato in una mattonaia a Pittsburg, negli U.S.A..
Il genio del popolo si è espresso largamente nelle improvvisazioni; qualcuno dirà che vi si è sprecato, ma l’improvvisazione è un’arte e la letteratura un’altra; talvolta sono combinate. L’improvvisazione è come la recitazione: la generazione seguente saprà dei suoi trionfi solo per sentito dire, ma i suoi trionfi non erano meno reali.
Se un popolo ha la capacità di produrre la grande letteratura, non sceglierà per esprimere se stesso i soli improvvisatori; infatti i loro facili trionfi possono distrarre le energie dal più arduo compito di trovare una perfetta e definitiva espressione. Tuttavia l’improvvisazione è almeno un mezzo per dire quello che si sente nel cuore, sia una lode per la propria donna, o amore per i santi, o odio contro il tiranno, o un complimento per il vicino che abbia mandato in dono una bottiglia del suo migliore vino».
I pensieri – che fra Roseto e Pescara mi hanno fatto fare “Lù Saltarèlle” fra i Talking Heads e Serafino Aquilano – terminano davanti all’addetto all’ingresso al Massimo che vuol vedere il mio Green Pass (chissà che stornelli avrebbe dedicato al Covid-19 l’impavido Serafino). Verifica fatta, si entra a teatro. Ed è bello pensare che Setak, dopo il prestigiosissimo palco del Tenco a Sanremo e dopo essere passato per tante serate fatte di un pubblico ristretto, come logico per ogni artista che inizia senza la pompa dei mass media o della televisione, possa adesso esibirsi in un luogo importante della sua regione.
C’è tanta gente. Ed è la cosa più importante, soprattutto considerando i tempi pandemici. E siccome Federico Garcia Lorca parlava dell’importanza di condividere una gioia per goderne appieno – ben prima che Mark Zuckerberg inventasse Facebook, dando comunque un modo al pensiero del “Poeta en Nueva York” – armo il mio smartphone e produco qualche sgranata diretta video (che propongo in calce).
Nicola “Setak” Pomponi ha il fisico del ruolo e domina la scena. Ha le misure, il senso del palco che gli deriva dall’aver praticato sia uno sport di squadra, il basket, sia uno sport individuale come il tennis.
L’ideale primo violino, che però suona le tastiere, è sangue del suo sangue: il fratello Nazareno, più volte pervaso da uno spirito “joecockeriano” che lo porta ad assumere posture ed espressioni da estasi mistica. Il Nazareno, appunto.
La chitarra elettrica è suonata dall’ottimo Emanuele Carulli, mentre la sezione ritmica è affidata al basso di Fabrizio Cesare (che è pure il mentore di Setak) e alla batteria di Valerio Pompei, con la preziosa aggiunta delle percussioni del mio amico Morgan Fascioli.
Su Morgan Fascioli tocca fermarmi in contemplazione. Lo guardo suonare – ornato con un deflagrante orecchino appeso al lobo destro che me lo fa somigliare a un callido commerciante delle steppe turkmene – e penso che lo conosco dal 2003, quando collaborai con lui, direttore artistico, a Jazz Wine a Roseto degli Abruzzi (30 e 31 agosto, 1° settembre), presentando artisti come Battista Lena, Enzo Pietropali, Maurizio Giammarco, Rosario Giuliani e i suoi Ciccon’dela, con il compianto Marco Tamburini a fare da super ospite. Poi abbiamo fatto un disco insieme e un libro e, soprattutto, condiviso tante meravigliose conversazioni postprandiali su cultura e musica. È stato lui a presentarmi Setak.
Quindi adesso – di primo acchito – a vederlo così adornato mi sembra il prodotto di una mia deriva distopica, anche perché mi ricordo di quando Michele Torpedine – il manager del Volo, ma pure lo scopritore di Andrea Bocelli e il gestore di carriere di artisti di calibro mondiale, oltre che organizzatore delle prime due edizioni del Pavarotti & Friends... per non dire di quando fece suonare a Miles Davis la tromba in “Dune mosse” di Zucchero – gli chiese quale fosse secondo lui il più grande batterista della storia, dandogli una sola opzione di risposta. Morgan (consapevole dei trascorsi da batterista di Torpedine) senza esitazione rispose: «Buddy Rich». Da quella sera nacque una amicizia fra i due.
Ma niente distopia! Correggo volentieri il mio sciocco super ego bacchettone. Morgan, che si produce in un applauditissimo assolo di percussioni nel bel mezzo di “Pane e ‘ccicorje”, è una splendida utopia. L’isola trovata, dopo lungo navigare, di fronte al Municipio di Pescara.
Il concerto è coinvolgente a livello di contenuti e gioioso a livello musicale. Quasi sempre il pubblico – fatto in buona parte di fan che sono una sorta di famiglia allargata dell’artista e che se lo coccolano dall’inizio alla fine – accompagna Nicola nelle strofe fino all’acme di “Camillo” (Camillo come Malaussène, Setak fa rima con Pennac quanto a descrizione di capri espiatori), cantato facendo salire sul palco amiche e amici che vogliono unirsi al coro.
Meritata menzione per la suggestiva scenografia realizzata dagli ottimi organizzatori della Spray di Maurizio Palazzo: un’installazione video che mi ricorda l’eleganza di una cosa simile vista a un concerto del compianto Franco Battiato.
Setak canta in dialetto. Ma potrebbe essere portoghese – come gli dicono alcuni fan non abruzzesi – o francese. Dal palco, dialogando con il pubblico, Nicola chiosa sul fatto che qualcuno gli chieda di scrivere i suoi pezzi in italiano, sorridendo del fatto che in molti canticchiano – nel loro personalissimo slang – canzoni straniere delle quali non capiscono una sola parola. Ha ragione e mi ricorda di quando, in concerto al palasport di Roseto degli Abruzzi, Francesco Guccini disse la stessa cosa prima di attaccare una canzone in dialetto emiliano, tuonando: «Vi canto una canzone nel mio dialetto. Se non la capita, portate pazienza. Tanto passate le giornate ad ascoltare canzoni americane delle quali non capite nulla». Oddio, non disse proprio “nulla”, ma va bene...
Guardano le mie dirette video su Facebook e le apprezzano due persone alle quali tengo molto: il parente rosetano Franco Di Gianvittorio – emigrato da decenni in Inghilterra – e l’amico Eribarco “Edward” Lo Sasso, nato negli Stati Uniti d’America ma avente radici di Notaresco, volontario a 17 anni nella Seconda Guerra Mondiale e poi ingegnere alla Nasa il giorno dell’allunaggio.
Oggi, superati i 90 da un po’, Eribarco mi chiede lumi su chi sia questo eccezionale “band leader”. Ne sono felice, avendo avuto la ventura di intervistare l’uomo da me ribattezzato “Mister Moon” e di comprendere la sua eccezionale levatura culturale e di sensibilità (in calce, ci metto anche la sua intervista), in occasione di un suo viaggio in Italia nel 2018, alla scoperta delle sue radici (gli capitai vicino di tavolo al ristorante... quando si dice la fortuna del giornalista).
Il concerto va avanti fino all’ingresso sul palco del grande Mimmo Locasciulli. A quel punto il gruppo diventa “Come una macchina volante”. Sì, è vero, è pure il titolo dell’autobiografia del medico e cantautore abruzzese – origini “pennute” comuni con Setak. E, appunto, ci sta benissimo.
Oltre a Locasciulli, sul palco salgono, arrivando dai lati come affluenti che portano vigore al fiume, i sassofonisti Piero Delle Monache e Mario D’Alfonso. I fiati arricchiscono ulteriormente alcuni momenti del concerto.
Finisce con una jam finale, al termine dei due bis. Tutti sul palco e pubblico in visibilio.
E io penso a com’è bello l’auspicabile “Rinascimento Abruzzese” fatto di Donatella Di Pietrantonio, Remo Rapino, Setak, l’Abruzzese Fuori Sede e – perché no – pure la mia rubrica “Il Rosetano per tutti”, nata nel 2012 su Roseto.com.
Complimenti a Setak – un abruzzese buono per il mondo – e alla sua band.
VIDEO
Setak in concerto al Teatro Massimo di Pescara.
Pane e ‘ccicorje
https://www.facebook.com/lucamaggitti/videos/642525890255838
Camillo
https://www.facebook.com/lucamaggitti/videos/327685942161366
Lu juste arvè (con Mimmo Locasciulli)
https://www.facebook.com/lucamaggitti/videos/1081385909343774
Pane e ‘ccicorje (jam finale)
https://www.facebook.com/lucamaggitti/videos/6576048815801184
ROSETO.com > Archivio > 8 giugno 2018
Via Seneca [Il privè di ROSETO.com]
ERIBARCO: L’UOMO DELLA LUNA!
Il racconto di un ‘primo veloce’ che si è trasformato in una ‘chiacchierata intergalattica’, grazie a un 93enne speciale.
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=16990