Suggestionato da Walter Pedullà (senza che egli ne sia in alcunché responsabile, e anzi mi scuso della chiamata in causa), e più specificamente dai saggi brevissimi e folgoranti del trittico “I titoli” (su Savinio, Gadda e Landolfi, si trovano nel volume “Le armi del comico. Narratori italiani del Novecento”, Milano, Mondadori, 2002, pp. 149-192), mi sono spesso domandato (indebitamente) quale potesse essere, e se potesse esservi, e anzitutto se fosse lecito che mi proponessi io di scovarla (con chiaro esubero di sicumera), una formula o uno schema, oppure un qualsiasi altro “modello” più o meno simile, che potesse risultare utile a scomporre un’opera letteraria in una sorta di sunto concettuale buono, almeno in parte, a contribuire a individuarne delle caratteristiche salienti (in senso tematico o formale).
Leggendo “Le tetradi perdute di Marshall McLuhan” (trad. it. Fabio Deotto, Milano, ilSaggiatore, 2019), ho pensato (e non so se altri lo abbiano fatto prima: qualora fosse, riconosco sin d’ora tutti gli eventuali primati di terzi) che il “metodo” proposto dal volume di Marshall McLuhan (1911-1980) ed Eric McLuhan (1942-2018) potesse offrire uno spunto sul quale provare a lavorare.
Quel che in quel libro straordinario si sostiene è semplice a spiegarsi e lo si può ben fare estrapolandone stringate porzioni dalla parte introduttiva: una «tetrade» individua «le quattro leggi che governano tutte le innovazioni umane»; più specificamente, le tetradi dicono o ipotizzano «che cosa verrà recuperato, reso obsoleto, incrementato o amplificato e ribaltato da una certa tecnologia – senza un ordine particolare» (p. 9). Si tratta, insomma, di strutturare uno schema organizzato in quattro parti.
Non sono un esperto di McLuhan, ma gli incontri che ho avuto con le sue pagine non hanno durato fatica a suscitare in me una fascinazione trascinante (per carità, non è garanzia della comprensione delle sue teorie), perciò, sulla scorta di questo entusiasmo, ho pensato che il “gioco” potesse rivolgersi alla letteratura, assumendo una poesia o un romanzo per quello che sono: appunto «inovazioni umane» (nel senso: un testo innova, cambia qualcosa, aggiunge; dovrebbe, almeno).
Allora mi sono accordato la licenza e ho provato a vedere cosa potesse venire fuori dal tentativo (il mio esercizio è questo: un tentativo). Così ho pensato di provare ad applicare le tetradi a tre romanzi di Gian Luigi Piccioli (1932-2013), Mario Pomilio (1921-1990) e Ignazio Silone (1900-1978).
Per ogni tetrade che ho elaborata, ho riportato delle citazioni (prelevate dal testo esaminato, da altre opere dell’autore o dalla critica) mediante le quali esplicitare quanto volevo intendere (ma in alcun modo i brani possono essere condiserati come una selezione della critica, un “meglio di”).
- Gian Luigi Piccioli, “Inorgaggio”
(edizione di riferimento: Milano, Mondadori, 1966).
Amplifica l’imperio della «monade» azienda su chi vi lavora. «La parola [del titolo] richiama l’ingorgo di un ingranaggio. È la fine dei “Tempi moderni” e l’inizio dei tempi postmoderni, della cessione di sé non più imposta, ma condivisa» (Gian Luigi Piccioli, Simone Gambacorta, “Tempi simultanei. Libri e viaggi di uno scrittore”, Giulianova, Galaad Edizioni, 2012, p. 31).
Recupera il caos, in linea con quanto da Piccioli fatto in altri romanzi. Quindi, continuità tra il «caos barbarico dell’evo di mezzo» e il «caos tecnologizzato dell’evo nostro» (Giuliano Manacorda, “Storia della letteratura italiana contemporanea. 1940-1996”, Roma, Editori Riuniti, 1996, vol. 2, p. 839); dà (recupera) una lingua al caos tramite una «prosa schizomorfa» ottenuta con «un ibridismo espressivo che è il segno della sua riuscita di scrittore» (Luigi Baldacci, “Nel mondo aziendale rivive l’Egitto dei faraoni”, «Epoca», 27 novembre 1966).
Rende obsoleta la definizione univoca. «Entità chiusa cieca impenetrabile, azienda che è Stato assoluto, meglio pianeta, anzi entità indefinibile di cui è possibile dire soltanto ciò che non è, quindi, caro signor cappellano, con un grando di astrazione maggiore dell’idea di Dio che appare repentinamente obsoleta» (“Inorgaggio”, pp. 14-15).
Ribalta la frenesia in dissolvenza. «Della nostra epoca non resterà nulla, come di me se mi uccidessi. Forse perché nonostante la nostra vita sia condizionata dalla velocità, dentro, qui dentro, dentro di me ma penso anche dentro gli altri, tutto è fermo. Come se mancasse l’obiettivo da perseguire per tutta la vita, su cui lanciare la fiocina, specie di Moby Dick che soffia lontano e si beffa di noi» (“Inorgaggio”, p. 32).
- Mario Pomilio, “La compromissione”
(edizione di riferimento: Firenze, Vallecchi, 1965).
Amplifica la crisi. «La vera «compromissione» del giovane professore non è tanto di vedere ristagnare l’ideologia negli umori della psiche e nell’alea degli interessi privati, quanto di assistere all’avvento di altre prospettive, che soverchiano e dissipano l’esiguo peculio della fede per l’ordine nuovo. Il suo disincanto ideologico scopre un’insufficienza morale assai più profonda e più compromettente, che investe alla base l’intero edificio umano. Non si tratta più d’uno stato d’animo, ma d’una crisi che tocca la struttura della società e della storia» (Salvatore Battaglia, “Mitografia del personaggio”, con una «memoria» introduttiva di Mario Pomilio, nota editoriale e revisione a cura di Vittorio Russo, Napoli, Liguori Editore, 1991, p. 595).
Recupera “la” provincia e non “una” provincia specifica. «La verità è che io scrivendo tenevo lontanamente presente Teramo come suggestione topografica e specialmente paesistica, ma in controluce vedevo un’altra città, la mia Avezzano» (Pomilio, lettera a Giacinto Spagnoletti del 23 febbraio 1972, cfr. Vincenzo Caporale, “Dalla Resistenza alla Compromissione: un percorso all’interno dell’epistolario di Mario Pomilio”, in “Le ragioni del romanzo. Mario Pomilio e la vita letteraria a Napoli. In memoria di Carmine Di Biase”, a cura di Fabio Pierangeli e Paola Villani, Roma, Edizioni Studium, 2014, p. 276).
Rende obsoleta la tenuta. «La compromissione a mio avviso è infatti molto di più: è un romanzo “della dismissione”, che nel suo farsi diviene gradualmente romanzo di una “abdicazione”, sino a farsi “romanzo di disappartenenze”. Disappartenenza agli amici, ma pure anche agli altri in generale; alla fidanzata e poi moglie Amelia; ma soprattutto a se stesso» (Ermanno Paccagnini, “La compromissione”, in AA.VV., “Mario Pomilio pellegrino dell’assoluto”, Panzano in Chianti, Edizioni Feeria - Comunità di San Leolino, 2010, p. 75).
Ribalta la generazione subentrante in quella soccombente. «La borghesia nuova non solo non è al potere, non solo non è in grado di prendersi alcuna allegra vendetta, ma soccombe di fronte agli antichi signori, un po’ per incapacità e nebulosità d’ideali e di fini, un po’ perché travolta irresistibilmente nel compromesso» (Mario Pomilio, “L’antirisorgimento di De Roberto”, in Id., “Scritti sull’ultimo Ottocento”, a cura di Mirlo Volpi, Novate Milanese, Prospero Editore, 2017, p. 80).
- Ignazio Silone, “Fontamara”
(edizione di riferimento: Roma, Newton Compton, 2009).
Amplifica l’insonorizzazione (la sofferenza di chi è sfruttato) e l’emarginazione. «Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici» (“Fontamara”, pp. 28-29).
Recupera il periferico. «Il destino degli uomini nella regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne» (Ignazio Silone, “Una terra cristiana”, in “Un parco per i sogni. Luoghi e paesaggi abruzzesi nella narrativa del Novecento”, a cura di Massimo Pamio, Chieti, Noubs, s.d. [ma 1997], p. 53).
Rende obsoleti il privilegio e la sudditanza. «A partire dal libro d’esordio, “Fontamara”, Silone è venuto via via realizzando un modello di romanzo sociale ideologicamente intriso di populismo cristiano, al cui centro c’è il tema della lotta contro l’oppressione del potere politico e della rivendicazione della libertà interiore dell’uomo» (Carlo De Matteis, “Civiltà letteraria abruzzese”, L’Aquila, Textus, 2001, p. 392).
Ribalta il periferico in critica. «È Silone che per la prima volta, con l’interrogativo «Che fare?» posto nelle ultime pagine di “Fontamara”, conferisce un barlume di coscienza politica alle classi subalterne» (Vittoriano Esposito, “Arte e pensiero di Ignazio Silone”, in Id., “Note di letteratura abruzzese”, Roma, Edizioni dell’Urbe, 1982, p. 376).
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Il Critico Condotto [Simone Gambacorta]
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