Il Critico Condotto
WIMBLEDON FLAIANO, L’EVIDENZIATORE CINQUANT’ANNI DOPO

Nel giorno dei cinquant’anni dalla morte, un pensiero di Simone Gambacorta su Ennio Flaiano.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Domenica, 20 Novembre 2022 - Ore 09:45

Flaiano era troppo intelligente per non esserlo ogni giorno ed era troppo endemicamente snob per essere semplicemente uno snob. Nasce qui quello splendido e agrodolce distacco che ne fa una sorta di caso a parte, di capitolo a sé della nostra cultura, direi anche un singolare elemento di disturbo che, ai meno solerti, conviene scolasticamente provare a incapsulare nella profilassi assai inane delle definizioni castranti e sedative.

A cinquant’anni dalla morte (20 novembre 1972), quello che Flaiano continua a ribadire è il problema di come definirlo, e se.

Il dato primario di questo scrittore (così inevitabilmente sempre e ovunque sé stesso) è quello che a prima vista parrebbe corrispondere a nulla più che a un’attribuzione generica ed elusiva: l’intelligenza.

Alle definizioni di scrittore, di sceneggiatore, di aforista, di giornalista bisognerebbe rispondere sempre con la constatazione di un’insufficienza; perché se ciascuna di esse risulta riscontrabile, è pur vero che ciascuna risulta attendibile fino a un certo punto, e in sé esaustiva pochissimo: non parzialmente inesatta, ma solo parzialmente esatta: e puntualmente vi si coglie alcunché di mancante.

«Vorrei regolare il passo sulla cadenza delle traversine, ma ci manca sempre qualche centimetro e ogni tanto devo farne uno raddoppiato». Questo brano ferroviario de “Lo stadio di Wimbledon” di Daniele Del Giudice viene utile anche per Flaiano, che a definirlo ti accorgi del passo troppo corto e allora devi fare altrimenti.

Direi che il punto da tenere a mente è quello in apparenza più semplice ma in effetti più concreto: con quel suo disincantato modo di stare al mondo e di sentire le cose, Flaiano è stato uno sperimentatore continuo della propria intelligenza, e di quell’intelligenza ha fatto uno stile (alla cosa credo abbia peraltro riconosciuto un’importanza relativa – non dico minima, ma potrebbe anche essere – ben sapendo che in fondo alla fine nulla serve a nulla).

Lo snodo decisivo è questo e pure il chiamarlo “genio” è una semplificazione grossolana e leziosa che lascia il tempo che trova. Il gigantismo degli osanna magnificanti è infatti quanto mai sconveniente per uno scrittore talmente nemico della retorica.

Un esempio di enfasi spumosa e spumeggiante a suo discapito lo si può avere chiaro quando si sente parlare di “capolavoro” a proposito di “Tempo di uccidere”, che è un romanzo d’eccezione e di grandissima caratura e oltremodo capiente quanto ad angoscia e disillusione e sentimento della pochezza dell’uomo dinanzi al caso, ma che non andrebbe sopravvalutato e tanto meno sotterrato nella retorica facile e ferocemente consumistica dell’essere stato il primo romanzo vincitore del Premio Strega nel 1947.  

Flaiano ha fatto lo sceneggiatore, il critico cinematografico e teatrale, il giornalista, l’aforista, il narratore, il poeta e il drammaturgo squisitamente a modo suo (ogni sua branca sconfina e contamina l’altra) e il primo suo fondamentale anticonformismo sta nell’aver portato avanti l’intemerato esercizio dell’intelligere fondendo sempre le ragioni della parola con l’esperienza del vissuto.

Fondamentalmente è stato un critico del suo tempo, giammai urlante e men che meno ridondante e mai e poi mai rauco, diciamo un critico “a bassa voce”: non uno di quelli – per capirci – da mettersi in piazza a fare propaganda alle proprie faccende o a distribuire lezioni di credo.

Fatto è che i suoi aforismi, al pari dei suoi racconti o delle sue sceneggiature o di qualsiasi altra cosa abbia scritto, sono (racchiudono) forme di critica del suo presente. La piroetta sta nel fatto che la cosa vale anche per il nostro, di presente.

La “bravura” di Flaiano, la sua intelligenza, il suo talento, la sua indisciplina, il suo sberleffo amarissimo, stanno nell’aver colto quel presente non soltanto come segmento storico, ma più ancora come campo di estrazione di elementi paradigmatici tali da rendere la sua opera un «occhiale indiscreto» con cui leggere criticamente, spesso sorridendo, la nostra contemporaneità e il nostro humus antropologico.  

A cinquant’anni dalla sua morte quello che è possibile dire è che la maggiore provocazione che Flaiano lascia in eredità è la certezza che per essere intellettuali occorre preliminarmente essere intelligenti.

Sembra la scoperta dell’acqua calda quando invece, in un sistema mediatico neoliberisticamente dominato da quella che Panarari ha giustamente definito «l’egemonia sottoculturale», è un concetto che assume un valore critico enorme.

Flaiano è stato un evidenziatore, inteso proprio come il pennarello che usiamo per mettere in risalto quello che non deve sfuggire, quello che va distinto dal resto nel quale altrimenti si sperderebbe. Lo è stato nel micro delle sue singole e molteplici scritture e lo è stato nel macro della portata intellettuale della sua critica al conformismo, alla simulazione e all’uso ottuso della lingua italiana.

Lo è stato, soprattutto, grazie a una incredibile capacità di sintesi: la sintesi dell’osservare prima ancora che del dire, la stessa che gli consentiva di isolare campi semantici diversi che potevano poi essere tradotti nella variabile misura della battuta, del racconto o del suggerimento per la scena di un film.

Questo intervento, pur con non poche né esigue differenze rispetto alla presente versione, è stato precedentemente ospitato quale mia dichiarazione (sin troppo ampia, lo ammetto) all’interno di un articolo di presentazione di una tavola rotonda su Flaiano (trattavasi dell’incontro da me poi curato il 6 ottobre 2022 a Teramo entro il “Premio Gianni Di Venanzo”) nel periodico “Teramo Nostra Notizie” (num. 2, giugno-settembre 2022). sim.gam.

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