Cent’anni di Rosetitudine
VENEZIA-VARESE ALLA MISERICORDIA: UNA FOTO PER UN CAPITOLO DEL LIBRO DI VINCENZO DI BONAVENTURA.

Elvio Pierich pubblica una foto e noi ci associamo un capitolo che racconta quella immagine, firmato dal poeta Vincenzo Di Bonaventura che lo ha compreso nel suo libro pubblicato nel 2021, in occasione dei 100 anni della pallacanestro rosetana.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Marted́, 16 Maggio 2023 - Ore 19:00
Capitolo 3
IWAN


Naturalmente seguivo la Reyer, gloriosa e nobile compagine di Venezia, Serie A, con gli americani, due, i giocatori da Nazionale, professionisti, alti, Dalipagic e la Misericordia.
Misericordia?
Si, una chiesa.
Mutuata in palazzo dello sport, perfetta, liturgica, transennata di tribune “innocenti” con affreschi rinascimentali e spifferi glucosio che provenivano dalle fabbriche della distanziata Marghera.
Misericordia.
Mai binomio mi fu più caro e fascinoso di quel che vidi nella Misericordia: un intimo cromatico di tinte sacre alle pareti, affrescate e abbinate alle casacche porpora dei giocatori lagunari, belli e sacralizzati da tanta divinazione ieratica e trasformazionale.
Pubblico giovane, fierissimo e partecipe, con epiteti coreutici ad alto contenuto drammatico.
Per gli avversari naturalmente.
La Serie A.
La differenza mostruosamente visibile con le altre categorie si faceva ingiusta e definitiva.
Lorenzo Carraro, playmaker dalle doti fisiche imbarazzanti, con una esecuzione in sospensione tale da credere che leggi di gravità solo per lui fossero decisamente infrante, portava palla al di là del centro campo, come Caronte i dannati al di là del Mississippi in trasferta giaculatoria, trattava la palla come un fluido fosforescente, disegnava traiettorie intrise di mistica degradazione terminale, dove la palla roteava su di sé con fruscio silente di serpe in agguato. Che giocatore!
Plastico e imperiale aveva i connotati del Dio in visita ai mortali, conferiva al tutto una ridondanza armonica, che altro non divenisse se non visione di celeste incanto. Che giocatore!
Memorabile e implacabile era la sua finta preparatoria al tiro dopo arresto e salto in due tempi, che abbelliva l’occhio dei guardatori, appena in tempo per scorgere il sollevamento del corpo ad una altezza tale, dove facilmente avrebbe messo in bocca al suo avversario le sue ginocchia. Che giocatore!
Mai più visti di così. Estetica e potenza allo stato puro. Atleta di rango internazionale, titolare fisso in Nazionale.
Stefano Gorghetto il Veneziano, guardia ala, due metri di audacia e stile inconfondibili. Tiratore implacabile, rapidità e velocità di moto e di idee, bello e giovane e assurdo come la sua città d’oro, ho percorso con lui un tragitto di brevissimo scambio confidenziale all’uscita della Misericordia, gentilissimo, principe di regno glorioso, amato e protetto come un erede al trono. Waldi Medeot, giocatore anomalo e solare con una dote rarissima per quei tempi, scagliare tiri da distanze siderali e fare canestro con percentuali da frode.
Elvio Pierich, satanasso essenziale crudo, eseguiva con spalle al canestro un semigancio estatico improbabile, con conclusione felice in rimbalzo caucciù.
Drazen Dalipagic, slavo possente, classe assoluta, tiratore scelto con avversari possibilmente addosso, per meglio accrescere il coefficiente “motivazia”, come era solito confidarci dopo le interviste.
Che squadra! Che goduria vederli!
Alta classifica.
Battaglie tecniche ed atletiche di alto lignaggio.
Ed Sthal, americano gigantesco, sornione, biondo, essenziale e materico come la sua mole palazzo, ancora dedito al rimbalzo in attacco come un cacciatore di nidi d’aquile, silente e performante come vento diaccio del Mukunguru, a modo nei modi del commiato della sera, dopo il fischio finale.
Giovanni Grattoni, giovane ed esiziale come un’onda d’urto, umile e schietto come un abitante di Utopia, realizzava canestri di audacia, pari alla sua generosità difensiva.
Che squadra! Che epopea!
Alla Misericordia ammiravo il gotha del basket italiano degli anni Settanta.
Sopra a tutti Dino Meneghin, il Moloch del nostro mondo, ala pivot di valore mondiale, grinta e rapidità da manuale. Spalle canestro, con repertorio coreografico assurdo, elastico e mobile come un corridore d’atletica leggera.
Quando veniva con la titolata Ignis Varese o Mobil Girgi Milano, io mi munivo del biglietto settimane prima, giacché la Misericordia poteva contenere solo un numero limitato di  spettatori.
Il tutto esaurito sempre.
Fu quella volta che venni travolto dalla disperazione quando trovai i botteghini chiusi e rimasi fuori dalla oramai mia Cattedrale dei sogni.
Una gara di cartello.
Reyer Venezia contro Ignis Varese in un novembre di tenue imbrunire, tacito e assorto come una gondola tremante. Vagavo lungo le mura della Misericordia, già inesorabilmente piena, due ore prima del fischio iniziale. Avevo circostanziato, con parole acconce, la mia supplica al responsabile dell’ingresso, che lungo era stato il viaggio dal Sud del sud dei Santi, che sentitissima era per me tracciare un reportage per un giornale cartaceo iniziatico per appassionati, che fondamentale addiveniva il resoconto dei dati della gara per una radio in collegamento differito, che indispensabile sarebbe stato il rapporto sugli arbitri da stilare per una scuola di giovani arbitri, necessarie le foto per un amico giornalista di una rivista locale, ma il tizio all’ingresso, che altri non era se non un dirigente della stessa Reyer, che poi ho rivisto un paio d’anni dopo all’Arena Quattro Palme per un torneo, e che non avrei fatto mai entrare se il gentilissimo Vittorio Fossataro non fosse intervenuto, fu irremovibile e scontrosetto anzichenò e in dialetto ritorto mi sospinse fuori.
Fuori c’era Venezia dopotutto, non le tolsi gli occhi di dosso per un po’. I diamanti fremiganti delle acque, annerate dal sole incupito, quasi sghignazzavano sulla mia sorte, arrembavano sugli imbarcaderi come bava molliccia, annaspavano sulla città stupenda come un attentato improvvido, lampioni radi spennellavano fugaci apparenze di tetti e guglie e laggiù, perfidamente, San Marco dalla basilica d’oro, ritmava lampi di alfabeto Morse al mio turpiloquio ininterrotto.
Già come Morse.
Campione americano, ala, tiratore da percentuali insopportabili, compagno di squadra di Meneghin. Appunto. Mi sarei perso la partita del secolo. Per un diniego assolutamente ingiusto, che mai avrei digerito.
Assaporai l’idea di entrare di frodo, escogitai espedienti magistrali, persino di travestirmi, da vigile, o da elettricista, o da accompagnatore della squadra ospite.
Conoscevo il custode. Il signor Scarpa. Un gentiluomo d’altri tempi.
Eravamo soliti conversare del più e del meno a volte.
Avrei chiesto di lui.
L’impotenza assume i connotati di un diavoletto dai piedi forcuti di Campaniana memoria.
Avrei vissuto la gara acutizzando l’udito al massimo, nel tentativo di decifrare l’urlo festoso o il mugugno sotterraneo della folla che, sicuramente, tra una azione e l’altra, avrebbe dato corpo al mio immaginario, in esplosione visionaria immaginifica.
Non ero nuovo a siffatta commedia.
La vita di uno spettatore compulsivo è soggetta a mille perigli, anche quando si è in procinto di diventare memoria storica e ufficiale del secolo canestraro.
Figurarsi.
Quante volte.
Al punto che l’orecchio era in grado di stabilire il coefficiente di portata tra un canestro e l’altro. Una azione può durare al massimo venti secondi. Se la folla è in sospensione silente per più di tredici secondi è chiaro che quello che ne verrà sarà incontenibile per decibel e festosità, giacché l’attacco è stato vissuto in strategia accorta, per una difesa arcigna e ben disposta, se l’urlo è rapido, ma forte, è il contropiede l’artefice principe, se, invece, il suono diventa soffocato, con improperi isolati, è sicuramente uno degli arbitri a subire l’amarezza collettiva, ma se la nostra Cattedrale pare esplodere, allora è un sorpasso del punteggio, e ancora, se il brusio si organizza in qualche epiteto irriguardoso, in fonematica evidenziale, allora vi è un bersaglio circostanziato e unico, oggetto di sano e robusto odio sincronizzato.
Essere fuori dalle mura, dove si sta disputando una gara straordinaria per i valori in campo, può essere veramente doloroso per un verso, ma, a tratti, un po’ calmierante, specie per talune sensazioni brivido, che, inevitabilmente, scaturiscono dal magma immaginario, in furore passio. Il tramonto rosso accartocciava la repubblica marinara in un groviglio untuoso e asmatico, Venezia quando diventava umbratile, se soggiogata dalla luna, appariva ritinta dal Tintoretto in persona, si lasciava guardare per singulti, a singhiozzo, sfarfallava un ventaglio arabescato civettuolo ed eccessivo, decideva di indossare una bautta verosimile, con qualche coriandolo rimastole addosso, così, seduta, imperterrita come un mausoleo, sulla piattaforma serpente della laguna imperiale, amara e magnifica, come una femmina impertinente in vena di dispetti d’amore.
Bella da trapassare l’anima.
Reale e al tempo stesso vibrante, come un miraggio oltre la duna. Mi faceva pensare a quei due galeotti relegati nella segreta angusta, dove solo una grata assecondava luce, al mattino, fievole e cara, ma posta troppo in alto. Il più alto dei due detenuti lasciava poggiare i piedi dell’altro sulle sue spalle, tale da poter permettere di guardare il mondo, che stavolta per loro era al di sopra di occhi d’uomo medio. Il più piccolo dei due così raccontava all’altro, minuziosamente, l’affaccendarsi della vita degli altri, del tempo, del cielo, del mare e di gridi di bimbi e di catene di navi in rada, di donne e uomini in tumultuoso crepitìo di quotidiano essere al mondo, di animali e carri e merci e cibo e festa e risa e canto e vita tutta scarpinata in note di fiaba e di stornello.
Così il giorno era da passare, lieve e più lenito diveniva il malessere e l’attesa. Il più piccolo  dei due, era deliziosamente attento a che nulla sfuggisse alla sua vigilanza periscopica, tutto veniva catalogato, espresso, magnificato da una epica narrante magnetica e suggestionale, tale da consentire al più alto una resistenza al peso dell’altro oltre il lecito, oltre la sofferenza, e
godere della vita, raccontata tutta da un pertugio con grata di ferro, dall’alba fino quasi a sera.
I due detenuti, se avessero avuto carta e penna, avrebbero scritto pagine inenarrabili, sarebbero stati come Proust o la Austen senza mai poterlo sapere, avrebbero dato sequenza viva ad uno spazio eternamente lo stesso eppure sempre diverso e affascinante. Diversi anni furono quelli, passati insieme nella cella dalla grata di cielo aperta alla vita, sopportati bene e riempiti dalla certezza di uno sguardo, che raccontava il passaggio sulla terra di una intera comunità posta laggiù sotto il perimetro del carcere crudele.
Un giorno, però, il detenuto dalla piccola statura muore all’improvviso, lasciando il più alto nella completa disperazione. Il suo pianto si levava fino al cielo, inconsolabile e senza rimedio pareva il dolore, tanto da emozionare i secondini tutti del bagno penale. Chiesero a lui cosa desiderasse per poterlo aiutare a superare la perdita. Lui chiese una scala a pioli, piccola, come l’altezza del compagno morto. Fu assecondato dopo qualche tempo. Grande fu la gioia, il giorno che gliela consegnarono. Ringraziò i suoi carcerieri come se avesse avuto in dono la libertà.
Di libertà ora avrebbe avuto piena risposta, mentre saliva lentamente commosso ogni piolo della scala dei sogni. Di nuovo avrebbe intessuto fili con la giovane fanciulla da marito che serviva a bottega, con il pescatore scrupoloso dalle reti bianche e della barca azzurra, con il solitario pittore di paesaggi di mare, della matrona dal grande seno che invitava i clienti al suo bistrò, e del giudice assorto, del poliziotto, del cane irsuto, della prostituta dalla voce di incanto, e del flauto, e del ribelle, e del mugnaio e del vento, e del cielo, e del sole, di nuovo tutto avrebbe avuto senso e storia e alito di vita. Ad ogni piolo immagini perfette si avvicendavano, si intrecciavano e si riordinavano come mosse da una energia di gioia rarefatta e assolutamente giusta.
Finalmente l’approdo.
Finalmente l’universo si accordava con la mente.
Finalmente la luce del mondo.
Al di là della grata, il mondo.
Al di là della grata, il nulla.
Il nulla.
O meglio.
Un altro muro, distanziato quel poco dalla grata,
da permettere il passaggio di un po’ di luce.
Niente altro.
Solo un muro di un altro carcere.
Fu chiaro allora a quell’uomo il tutto.
Il suo piccolo compagno lo aveva tenuto in vita
grazie alla sua vibrante e magnifica fantasia.
Vera e tale, da vedere con occhi veri, la vita tutta.
Mai vista.
Come se fosse vista.
Da un muro.
Da un accidente.
Da un cuore in palpito di fede assoluta.
Ecco.
Mi sentivo così.
Alla Misericordia in un pomeriggio di novembre,
all’imbrunire, sulla mia scala a pioli, nella Venezia
in belletto da quasi sera, io, spettatore compulsivo
e magnifico, vedevo un muro, solo un muro.
Lo spettatore dipendente non va via dalla zona
della contesa.
Resta.
Fuori.
Così esorcizza propositi strambi, spera, fino all’ultimo, in miracoli assurdi. La compagnia è la migliore di quanto si possa desiderare: Venezia da un lato, il mare e le isole dei vetri da un altro e la  Misericordia vociante e gracchiante come un pianoforte scordato, o come una orchestra in accordo prima del debutto, strumenti anomali e possenti disposti a raggiera, una città, un mare, un cielo rosso, una chiesa occupata da un popolo che canta canzoni blasfeme.
Mi tornava in mente Kurosawa con il suo Rashomon dove tre viandanti, rifugiati sotto la grande porta della città antica, durante una pioggia fiume, narravano a vicenda una versione diversa dei fatti riguardanti l’uccisione di un samurai.
Un enigma.
L’assassino non veniva svelato, sebbene uno dei tre raccontasse che anche la morte stessa dava la sua versione per bocca di una medium. Il mio Kurosawa era rimasto sedotto da “Così è se vi pare” di Pirandello, dove alla fine una identità è rivelata per quella che la si crede. Come le storie del piccolo galeotto, come me, che già mi figuravo di credere a scene scaturite da suoni al di là di un muro.
Sono stato sempre divorato dal fantastico, là dove il fantastico non c’era. Mancava poco meno di un’ora all’inizio della partita, ero sospeso nell’osservare attento lo sciabordare dell’acqua sui muraglioni di Venezia, il movimento ozioso ricordava il dondolio della culla, quel mondo di case e calli pareva una nave vuota in rada, una nave quieta in mormorio assonnato, il nicchiare della stiva col cigolare delle catene, fra poco si faranno sentire le cicale e lo stormire delle foglie, il miagolio dei gatti e il richiamo dei gabbiani, una musica lieve si leverà dalle palafitte, sarò possessore del segreto che tiene in piedi la città più bella del mondo.
Lo spettatore compulsivo avrebbe vagato da sé senza ritegno, nessuno stupore se da un momento all’altro avrebbe lasciato il suo corpo intento alla musica, mentre l’anima sarebbe entrata in chiesa senza pagare il biglietto, a vedere la partita di basket, la più bella che si possa immaginare.
Questo ed altro ti riscrive la storia.
Vedere quello che non è, è tutto ciò che resta, se davanti hai un muro, un muro che ti racconta meglio di chiunque altro quello che vorresti vedere.
Difatti vedo un altro spettatore avvicinarsi alla chiesa, un ritardatario, magari avrà un biglietto in più, magari divideremo l’ascolto della musica di Venezia.
Elegantissimo, mani in tasca di un soprabito trench bianco, baffetti curatissimi, passo sicuro, volto sereno.
Alto.
Molto alto.
Due metri e oltre.
No.
Non è uno spettatore.
È un pivot.
È una leggenda.
È Iwan Bisson.
Iwan Bisson.
Compagno di squadra di Meneghin.
Senza borsone.
Probabilmente uscito per una qualche ragione.
Rientrava.
Lo conoscevo da sempre.
Giocava a Teramo, un tempo.
Lo vedevo spesso al mio paese. Al mare.
Era diventato col tempo uno dei giocatori più importanti nel panorama della pallacanestro italiana.
Un Nazionale.
Un campione.
Mio Dio.
Iwan.
Mi precipito e senza pudore espongo i fatti.
Gentilissimo mi ascolta fino in fondo.
Sentenzia calmissimo un: “Vieni con me.”
Evidente che lui sarebbe entrato in altro ingresso, quello degli spogliatoi.
Entrati dentro ti ritrovo il dirigente astioso di prima.
Iwan profferisce tre suoni che avrebbero spezzato i ferri di qualsiasi canestro: “Lui è con me.”
Come un padre che accompagna il figlio a scuola
mi salutò, e, con una dolce spinta sulle spalle, mi sorrise e mi disse: “Ciao, divertiti”.
Il muro è sgretolato.
Ridotto in frantumi, di là vedo il campo, la folla sugli spalti, tamburi, canti, grida, festa, tripudio della vita.
Mio Dio, tu esisti.
Ho tutto nella mente.
Attimo per attimo.
Un incontro batticuore.
Una delle serate più belle della mia vita.

Vincenzo Di Bonaventura
CENT’ANNI DI ROSETITUDINE

(Il segreto del LEM) ~ Cronistoria monologante in epicità canestraria
Prefazione di Luca Maggitti ~ Introduzione di Giampiero Porzio
ROSETO.com, 2021, Euro 10.


ROSETO.com > Archivio > 7 ottobre 2021
Cent’anni di Rosetitudine
VINCENZO DI BONAVENTURA E IL PRIMO SECOLO DI BASKET A ROSETO DEGLI ABRUZZI

Nel libro appena uscito, l’artista rosetano rende omaggio all’orgoglio di una città parlando del bene più prezioso: la vita. Il volume è in vendita alla libreria La Cura, di Fabio Di Marco, a Roseto.
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