Il Critico Condotto
FERITI A VITA

Simone Gambacorta parla di Parthenope a Gianni Gaspari e Renato Minore, dopo aver il film di Paolo Sorrentino. E ci consente di sbirciare i suoi messaggi WhatsApp...

Roseto degli Abruzzi (TE)
Marted́, 12 Novembre 2024 - Ore 18:15

Ho visto Parthenope al cinema. Mi è piaciuto. Quel che ne penso l'ho scritto in due messaggi WhatsApp a due amici con i quali abbiamo ragionato del film. Sono Gianni Gaspari e Renato Minore, i cui percorsi nella critica cinematografica (Gaspari) e nella critica letteraria (Minore) sono noti a tutti. Riporto qui sotto, a titolo di recensione, due stralci dei messaggi che ho inviato loro. Lo faccio perché mi sembra, questa modalità ‘confidenziale’, la più affidabile: ho scritto i miei due WhatsApp ‘a caldo’, senza immaginarne la circolazione pubblica cui ora vanno incontro, e perciò se non altro hanno dalla loro il valore della sincerità.

[dal messaggio a Gianni Gaspari]
10 nov. 24, ore 22.25

“...a me è parso, il film, un’estensione del concetto lacapriano del ‘ferito a morte’. È sicuramente La Capria autore amato da Sorrentino e in Parthenope questo dato mi sembra massicciamente dimostrato. L’estensione sta nel fatto che dall’essere ‘feriti a morte’, qui si passa all’essere feriti a vita: all’esserlo, in sostanza, dalla vita: e più specificamente, dal rimanervi, dall’esservi rimasti, dall’essere superstiti, dal continuare a ‘essere’ fra i nostri dolori e le nostre memorie, in una solarità crudele perché rende più esplicita la disperazione (penso al mostruoso Cheever di Oldman) e il disinganno. In tutto questo quel miracolo di formidabile grazia e libertà che è Parthenope mi è parso un magnifico modo di soccombere a una vita paradossalmente domata con la bellezza, con l’intelligenza, con l’amore per un’oltranza esercitata come metodo di esistenza: direi anche come dissipazione, come scialo, persino come magia”.

[dal messaggio a Renato Minore]
11 nov. 24, ore 9.47

“...mentre lo vedevo, mi rendevo conto di come e quanto Parthenope mi interpellasse, sia pur indirettamente, e non in linea strettamente tematica, nei termini della mia autobiografia, o per lo meno di quella che io considero tale: perché effettivamente quel film mi ha offerto una possibilità di partecipazione emotiva, direi di adesione, che mi si è volta d’un subito in interpellanza privatissima, in domanda, in interrogazione: e senza timore di dirlo, ammetto anche che mi si è imposta come commozione. E però alla fine credo che sia questo che si chiede al cinema come alla letteratura. Al netto delle sue maniere estetizzanti, che pure non disdegno e che accolgo come sue proprie clausole formali, credo che Sorrentino non avesse altro modo che quello che ha messo in campo nella linea di una fedeltà stilistica a se stesso, per fare di Parthenope quello che, in ultima analisi, mi pare Parthenope sia: cioè un film sulla vita. Questa è la maggiore e spropositata ambizione del film, ma a me sembra che questa ambizione sia ben incanalata in un flusso di immagini e di situazioni sempre in odore di incantesimo. L’incantesimo di tutti, direi, alla fine”.

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