Basket e Solidarietà
BRUNO CERELLA: LA MIA AFRICA.

Intervista al giocatore del Teramo Basket, creatore – insieme a Tommaso Marino – del progetto ‘Slums Dunk’ per portare il basket nelle baraccopoli del Kenya.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedì, 06 Dicembre 2011 - Ore 06:00
Se sei un giovane giocatore di basket e se sei pure bello come il sole, nel 90% dei casi passerai l’estate a fare il vitellone, mollemente immerso fra canti e balli, fregandotene di tutti (salvo il tuo agente) e – se proprio devi fare un sacrificio – adoperandoti (dietro giusto gettone) in qualche camp estivo.
 
Nell’altro 10% c’è Bruno Cerella, esterno oriundo argentino classe 1986, gran figo (per dirla con Giacomo Leopardi), attualmente in forza al Teramo Basket in Serie A.
 
Bruno, la scorsa estate, ha scelto di andare 15 giorni in Kenya, nelle baraccopoli intorno a Nairobi, a diffondere basket. Una sorta di evangelizzatore della palla a spicchi del Terzo Millennio. E’ nato così il progetto “Slums Dunk”, un calembour che – nel suo piccolo – punta a schiacciare indifferenza e povertà, aiutando gente che non sa dove orinare, ma intanto si diverte un po’ a palleggiare.
 
Un progetto tosto, lontano anni luce dal patinato delle comparsate a pagamento e del “volemose bene” un tanto al chilo. Un progetto di solidarietà vera come ce ne sono altri (ma non tutti), che punta a conferire al nostro amato basket un valore anche in territori in cui c’è bisogno di tantissime cose prima della palla a spicchi.
 
Per saperne di più sul Progetto “Slums Dunk”, abbiamo intervistato Bruno Cerella.
 
Bruno, tu sei argentino di nascita e giochi in Italia. Quali strade ti hanno portato fino al Kenya per il progetto “Slums Dunk”?
«La strada disegnata da un libro che ho finito a leggere ad ottobre 2010. Si chiama “El despertar del lider” di Kevin Cashman e me lo ha regalato mia zia. Mi è venuta voglia di fare una esperienza di vita, aiutando persone bisognose, ma volevo farlo in un posto che non fosse né l’Italia né l’Argentina, un posto in cui si parlasse inglese e ci fosse amore per lo sport. Volevo che il basket fosse il mezzo, visto che è la mia vita e lo amo. Sentivo che avrei concretizzato un progetto e che questo progetto sarebbe andato bene e io avrei potuto portarlo avanti. Così è nato “Slum Dunk”, una bellissima esperienza di vita che vorrei continuare a far battere, oltre che nel mio cuore, anche nel cuore dell’Africa».
 
Hai fatto squadra con Tommaso Marino. Vi siete fatti coraggio a vicenda per intraprendere il viaggio in Africa?
«Gli parlai del progetto durante una cena a casa sua, a Treviglio. A lui l’idea piacque subito, così parlò con la sua società sportiva e si mise d’accordo per partire appena avessero concluso i playoff. E così è andata. Siamo partiti insieme e io sono stato contentissimo di avere con me una persona come Tommy, solare e carismatica. Un ottimo compagno di avventura che ringrazierò sempre».
 
La cosa che ti ha più sorpreso, una volta arrivato nelle baraccopoli di Nairobi?
«Conoscendo un po’ la situazione nelle baraccopoli argentine, la cosa che più mi ha sorpreso – a prescindere che tutto sorprende! – è la “poca” aggressività e la tanta gentilezza che tutti ci hanno dimostrato. Non dimentichiamoci che noi, per loro, siamo i “muzungu”, i bianchi ricchi che hanno tutto nella vita. Nelle zone più disperate dell’Argentina – zone che in Italia non si vedono – c’è più violenza, invidia, criminalità e molto dipende dal fatto che classi sociali diversissime (ricchissimi e disperati) condividono gli stessi spazi, con grattacieli attaccati alle baraccopoli. In Kenya non ho trovato questo odio. Non c’è tempo per invidia o pianto, c’è soltanto tempo per sorridere e portare avanti la vita nel miglior modo possibile».
 
Come il basket può dare sostegno a gente che vive in 7 metri quadri e non ha bagno né acqua corrente?
«Il basket è uno sport che può inculcare nelle persone valori positivi da applicare poi nella vita quotidiana, ovviamente non solo dentro un campo di gioco. Noi, che siamo arrivati da una realtà diversa, abbiamo puntato a dimostrare come si può essere più organizzati nella vita di ogni giorno, ad esempio rispettando gli orari, senza cadere vittime del loro “Africa Time” (gente che arriva quando gli pare). Iniziare dalle cose come il rispetto degli orari, il rispetto del lavoro di chi porta avanti una squadra, il rispetto dei compagni, ti porta a fare piccoli ma apprezzabili passi avanti».
 
E\' utile il concetto di "allenarli" e di far fare loro squadra?
«Penso proprio di sì. Fare squadra è una delle cose più belle e anche più utili. Sapere che hai sempre un compagno sul quale ti puoi appoggiare se sei in difficoltà, sapere che stai lottando per uno stesso obiettivo, sapere che quando le cose vanno bene il merito è di tutti e quando vanno male bisogna stringersi ancora di più e lavorare, sono concetti utili anche nelle baraccopoli. Alla fine, impariamo tutti che per fare squadra non importa essere neri, bianchi, ricchi, poveri, africani, italiani, ma occorre avere volontà, spirito di sacrificio, umiltà, determinazione. Questi valori servono nella vita delle persone e noi, con il nostro piccolo contributo, penso li abbiamo aiutati a crescere dal punto di vista della coesione, facendo – nel contempo – crescere piccole realtà cestistiche».
 
Quali erano le richieste che ti facevano ragazze e ragazzi coinvolti? Cibo, vestiti... cosa?
«Mi chiedevano sempre perché avevo i capelli lunghi. Erano poi affascinati dai tatuaggi di Tommy e dicevano che stavano molto bene sulla pelle bianca. Mi hanno chiesto dove si trova l’Argentina, mi hanno chiesto perché ero andato fin laggiù per fare basket con loro. Mi hanno chiesto della mia famiglia, della mia vita e – verso la fine – anche se e quando saremmo tornati. Sai a cosa non erano interessati? Non erano interessati alle cose materiali!».
 
Quanto questo viaggio ti ha migliorato come uomo?
«E’ stata un’esperienza unica, piena di bellissime emozione vissute in 15 giorni. Ogni giorno mi sono svegliato con un sorriso e la voglia di vivere la giornata. Quando pensavo al progetto, credevo che avrei dato tanto a persone che avevano bisogno, ma quando tutto è finito mi sono reso conto di aver ricevuto mille volte quel che ho dato. Sono esperienze che vanno vissute. Io l’ho vissuta, ma mi piace anche raccontarla perché sono orgoglioso di far parte di questo progetto». 
 
Tornerai da quelle parti? E se sì, per fare cosa?
«Stiamo lavorando con entusiasmo per raccogliere i fondi necessari a portare avanti questo progetto, grazie anche all’aiuto del Teramo Basket, delle scuole teramane, della mia squadra in Argentina, della gente della onlus Karibu Afrika, e di tutta la gente che è disposta a dare un piccolo contributo economico. L’idea è quella di continuare a far crescere questo bellissimo progetto e, pian piano, avere obbiettivi più grandi, come ad esempio costruire dei campetti nelle baraccopoli o mettere in buone condizioni quelli che ci sono». 
 
Come si può sostenere il progetto "Slums Dunk"?
«Chi vuole aiutarci può contattarci e consegnarci materiale tecnico (borse, pantaloncini, magliette, double, palloni, fischietti, etc.) o dare un contributo economico». 
 
Esiste una morale del tuo viaggio della scorsa estate?
«Nel mondo ci sono centinaia di paesi, di etnie, di lingue. Io ho capito che la mia vita parla una sola lingua: la palla. E vive in un solo spazio fisico: il campo». 
 
 
IL PROGETTO “SLUMS DUNK NAIROBI” SU FACEBOOK
 
LE FOTO DI BRUNO CERELLA FATTE IN KENYA NELL’ESTATE 2011
 
IL SITO DELLA ONLUS “KARIBU AFRIKA”
 






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