Questo racconto è frutto di fantasia. I personaggi, le squadre, le circostanze, i dati, sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore. Se qualcosa di vero dovesse esserci, esso sarebbe citato in modo del tutto casuale, senza alcun intento di descrivere condotte reali. Perché – per dirla con Stanislaw Jerzy Lec – bisogna provocare l’intelletto, non gli intellettuali.
«Cosa ci avete fatto con tutti quei soldi che vi siete fregati? Ditemi solo che ci avete fatto! Vi siete comprati case? Macchine? Ditemi cosa ci avete fatto, voglio saperlo! Come avete potuto farmi questo? Io mi fidavo di voi e voi mi avete fregato così!»
Benitino Fornaciari era rosso in volto e aveva gli occhi fuori dalle orbite. Seduti di fronte a lui, dall’altra parte della scrivania direzionale del suo ufficio, 5 persone impietrite analizzavano la levigatura del piano di mogano, senza avete il coraggio di alzare gli occhi o muovere un muscolo.
Benitino Fornaciari era furibondo. Era da pochi mesi diventato il Presidente del Borgorosso Basketball Club – squadra di pallacanestro del paesino romagnolo di Borgorosso – e da allora erano iniziati i guai per il suo umore (più che per il suo cospicuo patrimonio, messo insieme commerciando frutta e verdura in tutta la Penisola), visto che non passava giorno senza una brutta scoperta, senza un vecchio debito spuntato come un fungo.
E sì che lui e lo sport erano stati due rette parallele fino ai suoi 50 anni di età, vista la bancarotta economica che il padre, Benito Fornaciari, aveva dovuto subire a causa del Borgorosso Football Club.
Benitino aveva fatto tesoro di quel fallimento e si era tenuto rigorosamente fuori dallo mondo dello sport, lontano da questuanti e senza mestiere che gli avrebbero senz’altro succhiato soldi fino a quando, un giorno, cadde preda del sorriso più affilato e finto di Borgorosso: quello dell’ingegner Ramboni, un bellimbusto che dopo aver conseguito la laurea aveva abbandonato sul nascere i sogni di gloria di diventare un progettista di fama, dedicandosi alle trame di provincia, diventando un faccendiere fra banche e enti.
Benitino fu benevolmente costretto ad accettare di dare una mano al nascente sodalizio cestistico del paese – composto dall’ingegner Ramboni e da altri 4 soci – dall’uomo forte della locale banca, professionista pragmatico che aveva in uggia il calcio e aveva fatto di tutto per farlo crollare a favore della pallacanestro.
E fu così che Benitino divenne il 6° socio, mettendoci firma fidejussoria e sostanzioso annuale contributo. Gli altri 5 soci ci misero idee, creatività, giacche di panno fino e cravatte ricercate, cene e trasferte. Insomma, Benitino pagava quasi per tutti e tutti si divertivano. Salvo lui, che passava il tempo a lavorare e ammucchiar soldi, concedendosi soltanto qualche femminile digressione, sua unica e vera passione. La banca, sorniona, teneva botta facendo buon viso a cattivo gioco quando il fido sconfinava.
A livello gestionale, ne nacque un marchingegno interessante, ma pericoloso come le finanziarie albanesi dei tempi di Berisha. Già, perché quando iniziarono ad arrivare i successi e la squadra infilò una serie di promozioni arrivando alla massima serie, i costi divennero insostenibili per il territorio di Borgorosso e della campagna circostante.
Così i soci pensarono di iniziare una catena di Sant’Antonio – non bastando più l’esposizione bancaria (anch’essa importante e quasi senza garanzie) – creando fatturazioni per sponsorizzazione “col moltiplicatore”, che permisero ad alcuni imprenditori compiacenti di cambiarsi il suv o il coupé. Il meccanismo era semplice: per ogni 100 “effettivi” si arrivava a fatturare anche 800 “virtuali”, con ritorno della differenza sotto forma di soldi in nero ad alcuni “munifici sponsor”, che la domenica si prendevano pure gli applausi degli ignari tifosi, venendo visti come benefattori del territorio (ed invece erano evasori fiscali ed edificatori di riserve di nero per comprare cose e, magari, pagare mazzette).
Per qualche campionato le cose andarono così bene che i 5 soci d’opera – che avevano tenuto rigorosamente all’oscuro dei loro giri il socio di capitale Benitino – furono addirittura presi ad esempio sia in ambito locale, a Borgorosso, sia in ambito nazionale, venendo intervistati e ricevendo premi.
Il successo, si sa, dà alla testa. E così il gruppo di comando del Borgorosso Basketball Club, suggestionato da giornalisti lecchini (quando non prezzolati sia direttamente sia indirettamente, mediante acquisto di pubblicità sui mass media da addomesticare) e premi ricevuti arrivò addirittura ad ipotizzare un “Modello Borgorosso”, che in qualche caso fu pure spiegato a studenti di marketing e comunicazione in una vicina università emiliana, fra mille applausi e salamelecchi. Alcuni studenti, rapiti dall’eloquio di uno dei dirigenti addetti al marketing, ma ancora in grado di pensare con la propria testa, provarono a chiedersi come la piccola Borgorosso potesse sostenere i costi di un campionato di basket della massima serie, non essendoci diritti televisivi e mancando il luogo di un circuito economico forte, ma di fronte ai mille loghi messi in bella vista nelle brochure non ebbero argomenti validi. Non potevano sapere che molti di quei marchi sponsorizzavano soltanto per costituire, magari all’estero, magari con qualche agente compiacente, fondi neri prossimi oggetto di scudo fiscale. Col senno di poi, più di qualche studente avrebbe esclamato: «Soccia, ma a far il marketing così siam buoni tutti! E quello lì, con quell’aria da sapientone, veniva pure a darci lezione, veniva…»
Qualche giornalista, ovviamente giovane, ovviamente precario, ovviamente malpagato, provò a interrogarsi e a scrivere qualcosa del tipo “Il re è nudo”, ma fu subito tacciato di incompetenza mista a invidia, escluso dalle cene sociali e emarginato dal locale circolo della stampa, dove spadroneggiavano invece quelli che dalla società ricevevano ricchi regali, quelli che con i dirigenti andavano a cena (e non pagavano mai), quelli che con la società andavano in trasferta (e pagava la società). Insomma, quelli che avrebbero fatto fatica – e molta – a scriver male di quelli che gli facevano fare la bella vita. Oddio, bella vita… regalini buoni per gente di provincia felice di vendersi e da sempre affascinata dal padrone di turno. Da qualsiasi padrone di turno.
Così il Borgorosso Basketball Club conobbe un lustro davvero esaltante. Cinque stagioni fatte di successi, promozioni, gioie in campo e fuori. Un lustro che portò anche molti soldi in tasca ai 5 soci del Borgorosso Basketball Club (Benitino Fornaciari escluso, ovviamente, che invece i soldi ce li metteva). Già, perché i 5 compari ormai erano ipnotizzati dai loro stessi magheggi e avevano confuso la realtà dei bilanci truccati con la favola del “Modello Borgorosso”. Fu così che si sentirono in diritto di elargirsi laute ricompense per il loro “lavoro” fatto per il bene della pallacanestro locale. Fu così che arrivarono soldi, e tanti, nelle tasche di ognuno dei soci. Le modalità non erano un problema: se sei bravo a inventarti triangolazioni, a fatturare moltiplicando per 8, a gestire associazioni sportive satellite che hanno il solo scopo di creare costi che non esistono affinché l’enorme mole di nero sia drenata; se sei bravo a fare tutto questo (e molto di più), non hai problemi a crearti sacche di reddito in nero per te, anche cospicue, ovviamente dimostrando alla plebe (perché è così che consideri i cretini che ogni domenica pagano il biglietto o l’abbonamento, piangono e soffrono per la squadra del cuore) che tu non solo non percepisci compenso, ma che lo fai per il loro bene e che ci rimetti di tasca tua. Perché quando sei stronzo, sei stronzo davvero.
Lo spaventoso mostro fatto di casini contabili denominato “Modello Borgorosso” era ormai funzionante da 5 anni e tutto sembrava filare perfettamente, quando la piccola banca ebbe un’ispezione dalla Banca d’Italia, che chiese chiarimenti su quel conto così scoperto della società di basket, che non aveva garanzie tali da giustificare una simile esposizione. Fu la prima crepa nella diga.
La banca ordinò alla società di rientrare, ma la società non aveva soldi per farlo. Allora un influente dirigente della banca architettò una sponsorizzazione ad hoc, consistente in un ricco contratto pluriennale a tantissimi euro l’anno, con patto privatissimo che la metà dei soldi della sponsorizzazione annuale non sarebbe stata praticamente mai erogata, visto che, al momento del bonifico dalla banca (cliente della società sportiva in qualità di sponsor) alla società (cliente della banca in qualità di correntista), la metà sarebbe stata bloccata con fare draconiano sul conto e destinata a rientrare subito nella cassa della banca, a parziale saldo del pesante scoperto. In fondo, chi può sindacare quanto vale una sponsorizzazione? In fondo, se la banca di Borgorosso vuole pagare il doppio o il triplo di una valutazione di mercato una sponsorizzazione, chi può metterci bocca, visto che sono soldi di un istituto privato? E pazienza se gli utili dell’istituto potrebbero essere destinati a cose più costruttive che arricchire qualche furbacchione.
La ciambella di salvataggio bancaria ebbe i suoi effetti. Il Borgorosso Basketball Club riuscì a finire un altro campionato dopo l’ispezione della Banca d’Italia e il giro di vite sul conto corrente, ma per farlo dovette farsi anticipare la metà della sponsorizzazione della stagione successiva (posto che la metà di quella in corso doveva servire a ripianare una parte di scoperto), oltre ad aumentare le fatturazioni “col moltiplicatore”, che a loro volta portavano problemi gestionali e contabili a cascata, da risolvere con la creazione di ulteriori associazioni sportive satellite dai bilanci non controllati o di ulteriori costi finti.
In questa tempesta, ci si mise pure l’uragano della galera per un imprenditore che in passato era stato sponsor della società, con un marchio di un prodotto introvabile sul mercato. Siccome l’anello al naso ce l’hanno sempre meno persone, più di qualcuno all’epoca aveva avuto da ridire su quella sponsorizzazione avente per oggetto un prodotto non reperibile, ma poi – fatto sfogare un giornalista cacacazzi che un articolo abbastanza dettagliato su quell’anomalia lo aveva scritto (beccandosi la piccata e minacciosa telefonata dell’ingegner Ramboni) – tutto era rientrato. A partire dai dubbi dei tifosi che, in questi casi, hanno pronta la frase di sempre: “Se ci dà i soldi, a noi che ci frega se il prodotto non si trova. Se vuole buttare i soldi, è libero di farlo”. I latini dicevano che i soldi non puzzano. Invece puzzano. E, soprattutto, nessun imprenditore sano di mente li butta. Se un imprenditore pubblicizza un prodotto che non si trova sul mercato, spendendo centinaia di migliaia di euro, è chiaramente un’operazione di copertura di azioni illecite. E, infatti, qualche anno dopo l’imprenditore sarebbe finito dentro.
Comunque, detto della galera per lo sponsor “creativo”, gli enormi casini contabili architettati consentirono al sodalizio romagnolo di sopravvivere un’altra stagione e di centrare una insperata salvezza, grazie all’impegno di tutti i dipendenti (dai giocatori agli impiegati) che accettarono di lavorare per più della metà del campionato senza percepire soldi.
Quando “la mucca” fu munta fino a sfinirne la mammella, i 5 soci si riunirono dicendosi chiaramente che la pacchia era finita. Bisognava – ora – coinvolgere Benitino, quel socio lasciato per anni fuori dai giochi. Quel socio neanche invitato alle feste. Quel socio sempre trascurato, che però con la sua solidità aveva sempre garantito fidi bancari e buone entrature nel mondo economico-finanziario romagnolo, oltre che annuali e puntuali contributi.
Anche perché i debiti erano tanti e, se agenti di giocatori e giocatori non sembravano animati dalle peggiori intenzioni e disposti ad attendere, lo stesso non si poteva dire di alcuni fornitori locali che vivevano umilmente e che dovevano riscuotere soldi per vari servizi (affitti di case, ristoranti, etc.). Era gente che campava di quello e che iniziava a non gradire più i sorrisi finti di chi prometteva pagamenti che non faceva, ma continuava a viaggiare su macchinoni, lasciando debiti a destra e a manca. Fu così che i soci, anche impauriti da qualcuno che sventolò loro sotto il naso i pugni, decisero di andare, con il cappello in mano, da Benitino Fornaciari a chiedere aiuto.
Benitino li ascoltò e – essendo imprenditore di successo dal cuore tenero – si lasciò sfilare un ulteriore milione di euro. Chiarì con i soci che non voleva altre noie e che quel milione dovevano farselo bastare per tutta la stagione. I soci annuirono, ma le loro testoline ciondolarono soltanto pochi giorni.
Quel milione, versato nel pozzo senza fondo dei circa 8 milioni di euro di buco che la gestione dissennata delle 6 stagioni precedenti aveva provocato, era un bicchiere d’acqua che doveva riempire un bacile. Benitino fu presto ricontattato, stavolta dalla banca, che gli fece notare che l’unica firma fidejussoria sicura (e cioè in grado di garantire con il patrimonio personale) fra quelle dei 6 soci era la sua.
Il Nostro si infuriò e dall’ufficio del Direttore Generale della banca uscirono urla che manco i tifosi quando la squadra si era qualificata per i playoff Scudetto.
La banca però fu irremovibile: Benitino era l’unico socio con la grana e – nonostante non avesse mai avuto parte attiva nel governo del sodalizio – adesso gli toccava metterci la faccia e il portafogli.
Così, più per dovere che per piacere, Benitino Fornaciari si mise di buzzo buono e decise che avrebbe vinto anche quella sfida. Non sapendo nulla dell’aspetto tecnico, cambiò poche cose e allestì una squadra in grado di lottare per la salvezza, attingendo a risorse personali. A livello contabile, invece, diede ovviamente il meglio di sé. Innanzitutto cambiò le cariche sociali, assumendo direttamente l’onere della firma societaria e fregando all’istante tutti gli sponsor che eventualmente avessero avuto la balzana idea di andare in banca a cambiare gli assegni ricevuti in garanzia, per le transazioni in nero ancora pendenti da vecchi accordi.
Poi assunse un manager capace, che in tre mesi effettuò una puntuale ricognizione dei debiti societari, trovando ogni sorta di casino concepibile dalla contabilità applicata allo sport. Benitino adottò un modus operandi improntato a pagare innanzitutto i creditori locali, perché erano stati i più colpiti dalle passate nefandezze e perché i loro crediti erano certi.
Più difficile fu il computo dei diritti di agenzia, dei contratti depositati, dei diritti d’immagine, del nero vero e proprio, delle gestioni estero su estero con agenzie di rappresentanza giocatori compiacenti. Benitino volle incontrare personalmente tutti i marpioni che a vario titolo popolano il mondo della pallacanestro (tanti bravi professionisti, ma anche tanti squali senza scrupoli come in tutti gli ambienti) e questo gli servì anche come corso accelerato per capire l’enorme mole di sotterfugi messi in atto dai 5 soci, i soci di cui era amico e che aveva lasciato fare per una mezza dozzina di anni senza alcun controllo.
La delusione più grande fu la constatazione che i soci – chi in un modo chi in un altro – da quelle stagioni piene di gloria sportiva avevano tratto altrettanta gloria monetaria. Chi aveva nascosto sotto forma di altissimi rimborsi spese un ottimo stipendio, chi aveva commerciato con gli abbonamenti (e, infatti, la prima campagna abbonamenti gestita da Benitino e fatta senza commerci o giri strani segnò un calo secco di oltre il 20% di abbonati), chi aveva affittato propri immobili (o immobili di amici facendo poi la cresta) a prezzi spropositati allo stesso Borgorosso Basketball Club, chi aveva usufruito di beni e servizi della società per uso privato estendendo gli usi ai familiari, chi aveva fatto la cresta praticamente su ogni cosa fosse stata fornita al sodalizio cestistico. Insomma, un vero e proprio ginepraio che disgustò parecchio il povero Benitino che – per dirla in francese – si sentì cornuto e mazziato.
«Che cretino sono stato! Mi sono fidato di gente che mi ha pelato come una patata. Non bastava mio padre, fregato dal demone del calcio, adesso dovevo farmi fregare pure io.. dal basket! Che fesso sono stato, li avessi almeno spesi a belle donne tutti questi soldi che mi hanno fottuto…»
Benitino ci mise qualche settimana a sbollire completamente la rabbia mista a delusione. Poi scelse la strada morbida. Aveva in mano le carte per denunciare i suoi ex soci e per mandarne addirittura qualcuno in soggiorno a spese dello Stato, ma non lo fece. Il suo amor proprio, il suo buon nome, la voglia di non autosputtanarsi sputtanando i suoi ex “compagni di viaggio” la ebbero vinta. Non avrebbe fatto nulla di distruttivo, per il bene di quella società che, in fondo, aveva imparato ad amare. Come il padre Benito Fornaciari aveva imparato ad amare il Borgorosso Football Club, nonostante lo avesse portato alla rovina.
Benitino avrebbe pazientemente rimesso i cocci insieme, sacrificando un altro po’ di patrimonio personale (ma il Nostro aveva i soldi per invadere San Marino) e provando a vedere se quella squadra poteva, onestamente (o quasi) restare attiva nella massima serie.
Decise di non esporre al pubblico ludibrio i 5 soci che lo avevano tradito, nascondendogli buy-out estero su estero, incassando soldi in nero per prestiti, facendo la cresta su ogni cosa possibile. Decise che la colpa era stata sua, perché non aveva vigilato. E decise che, siccome lui era ricco e di soldi ne aveva ancora tanti, andava bene così.
Si prese soltanto una soddisfazione: convocare i suoi ex soci un’ultima volta, nel suo ufficio di casa, per umiliarli a suon di urla. Per vedere i loro occhi toccare terra e non rialzarsi più, per apprezzare l’oceanica differenza fra il loro sguardo sprezzante da boss di quart’ordine quando erano nella piazzetta del borgo o al palazzetto e quello impaurito da bimbo sgridato quando lo pregavano di non adire le vie legali, promettendo restituzioni milionarie nel giro di pochi mesi.
Benitino li convocò – sapendo benissimo che quei soldi non li avrebbe più rivisti – li fece accomodare nel suo ufficio, sedere di fronte a lui dall’altra parte della scrivania direzionale con il piano di mogano… e iniziò a urlare.