Sembrerebbe l'Italia un paese di "cricche", intendendo come tali le associazioni di persone che tentano di trarre dalle disgrazie altrui vantaggi cospicui.
Ce ne sono esempi recentissimi nella cronaca italiana post terremoto de L'Aquila, che hanno come eroi eponimi Balducci e compagni, i quali tuttavia possono rallegrarsi se dovesse essere vero il detto che aver compagni al duol scema la pena.
Vengo alla storia che voglio raccontare, omettendo nomi di persone e società perchè mi riprometto con questo di denunciare un malcostume diffuso e consolidato più che un singolo episodio.
Mi riferisco, genericamente, agli organi di giustizia della FIP ed alla categoria dei professionisti che attorno ad essa si muovono sia in veste di patrocinatori che di arbitri.
Intanto l'inespugnabile elenco degli avvocati accreditati dalla FIP quali arbitri e nel quale figura anche qualche legale (ahi per lui, morto) è inspiegabilmente "bloccato" da tempo ed impermeabile ad ogni rinnovamento.
Tutto questo immagino per una meno ampia ripartizione degli incarichi che confligge, soprattutto ora, con le nuove determinazioni di ampliare, ad esempio, le categorie dei notai e dei farmacisti, per tacere dei tassisti, a favore di una più ampia concorrenzialità, ed anche della volontà di abolire i tariffari professionali.
Ma vengo al fatto.
Una società non professionistica contrae un obbligo economico nei confronti di un'altra e tarda ad adempiere. La scadenza prevista viene inesitata e la società ricorrente dopo meno di sei mesi propone giudizio. A seguito di ciò, prima che si avviino procedure irreversibili, la società intimata provvede al pagamento di quanto dovuto dandone comunicazione alla controparte ed invitandola a ritirare il contenzioso. Credendo così, in maniera colpevolmente ingenua, di aver chiuso la pendenza.
In realtà doveva ancora rifondere la tassa di ricorso e soprattutto l'onorario del legale di controparte il quale, giustamente, pur avendo avuto solo l'onere di proporre il ricorso prontamente soddisfatto, nutriva l'aspettativa di percepire il compenso per la sia pure non copiosa attività svolta.
Insomma, il procedimento va avanti e, con la colpevole disattenzione della società convenuta, si incardina sul riconoscimento degli interessi, a favore della società ricorrente, relativi al ritardato pagamento.
Viene costituito il collegio arbitrale composto da tre professionisti, per dirimere una vicenda che riguarda, nei titoli, la liquidazione degli interessi ma che alla fine porterà a ben altre e divertenti (per chi non le abbia dovute subire) conseguenze economiche. La società convenuta, ritengo in buona fede, non pone attenzione alle nuvole nere che si annunciano all'orizzonte e trascura di tutelarsi credendosi sicura per aver ottemperato al pagamento.
Bene, nel provvedimento finale del colendissimo collegio arbitrale viene stabilito che:
1) alla società ricorrente viene riconosciuto il diritto di percepire gli interessi sul ritardato pagamento che vengono definitivamente fissati in euro 65,91 (sessantacinque euro e novantuno centesimi)
2) alla società convenuta viene imposto di restituire la tassa reclamo pari a 900 (novecento) euro
3) all'avvocato della società ricorrente vengono inappellabilmente riconosciuti 2.979,40 (duemilanovecentosettantanove euro e quaranta centesimi) quali spese (???) di lite
4) il collegio arbitrale modestamente, per aver risolto con brillante ed unanime conferenza così spinosa vicenda, si autoliquida la bella sommetta di 7.391,75 (settemilatrecentonovantuno euro e settantacinque centesimi) a fronte della meditata e pensosa decisione assunta.
Intanto dispone il collegio stesso di chiedere, fino al totale soddisfo delle proprie pretese, il blocco dei trasferimenti della società soccombente, cosa che pedissequamente il segretario generale della FIP controfirma.
Fin qui una storia di ordinaria avidità che trova numerosissimi riscontri ogni giorno in tutti i campi, ma qui si innesta un'altra considerazione, di più alto profilo, che merita un approfondimento visto che coinvolge interessi e diritti non disponibili.
Accade che la società convenuta, nel frattempo, per proprie insindacabili ragioni, decide di ridimensionare il proprio settore giovanile liberando alcuni ragazzi provenienti da altre città. Alcuni si ricollocano subito, altri ci mettono un po’ di più. Uno di questi incappa nel blocco dei tesseramenti.
Accade quindi che per questioni che riguardano le società maggiori un ragazzino di 15 anni, estraneo alla vicenda, e per di più in prestito, quindi non costituente in alcun modo "patrimonio" della società debitrice, non possa svolgere alcuna attività agonistica (e questo dovrebbe essere il fine alto ed ultimo della FIP) a causa del debito della società per la quale è provvisoriamente tesserato.
Per ovviare all'impasse i genitori si trovano nelle obbligate condizioni, vista l'impossibilità almeno temporale della società convenuta, a liquidare con bonifico, come in effetti liquidano quanto intimato e cioè l'importo complessivo di 11.337,06 (undicimilatrecentotrentasetteeuro e zerosei centesimi).
Dov'è la giustizia che, per dirimere controversie peraltro di nessun sostanziale rilievo economico tra società ed invece di interessante rilievo per i gatti e le volpi degli organi di (in)giustizia federale, comprime l'indisponibile diritto DI UN MINORE ad esercitare liberamente la propria attività, cosa che, salvo diverso parere, dovrebbe essere lo scopo per il quale ha un senso che esista una Federazione.
Ovviamente di tutto ciò che scrivo ho ampia, esaustiva ed inoppugnabile documentazione.
Sarà il caso che almeno su quest'ultimo tema la Federazione si muova prima che venga citata in giudizio ai più alti livelli possibili. E' una questione di civiltà e di libertà, per le altre questioni si rivolgano pure ai collegi arbitrali, ma per queste... basterebbe sensibilità e capacità di svincolo dalle cricche.