Dino Seghetti, livornese di scoglio classe 1967, sposato con Amarilis e padre di due figli – Laura di 8 anni e Diego di 2 – è un arbitro di Serie A di basket, oltre a svolgere le professioni di ottico e preparatore atletico (in particolare degli arbitri di calcio e dei fantini).
Nel basket arbitra dal 1986 e in Serie A ha diretto circa 340 gare, fra le quali una Finale Scudetto (2004/2005, Milano-Fortitudo Bologna), 8 Semifinali Scudetto (fra le quali ricorda Virtus Roma-Fortitudo Bologna, Gara 4 del campionato 2004/2005 e Caserta-Milano, Gara 5 del campionato 2009/2010) e una Semifinale di Coppa Italia (Cantù-Avellino nel 2011).
Da giovane, il Nostro ha giocato a calcio, rugby (13 anni, arrivando fino alla Serie B), football americano e – per un anno – anche a basket.
Per conoscere meglio questo arbitro appassionato di sport e professionista della condizione atletica, lo abbiamo intervistato.
Dino Seghetti, ho un amico che si è rotto un braccio cadendo da cavallo. Era fermo. In passato era caduto galoppando ed uscendone sempre illeso. E' proprio vero che, a volte, l'incidente più banale comporta i danni più seri. Lei ne sa qualcosa, vero?
«E’ vero, ne so qualcosa. Il 28 ottobre 2011, ritornando dall’allenamento, sono caduto in modo banale. Ero in motorino e una macchia d’olio in una curva mi ha fatto cadere a terra, nonostante stessi andando piano (circa 20 km/h). Ho avuto subito la sensazione che fosse accaduto qualcosa di grave, ma non pensavo che avessi potuto fratturarmi il braccio in questo modo. Risultato: frattura scomposta ed esposta del terzo distale dell’omero sinistro. Nell’operazione fatta all’ospedale di Cisanello, Pisa, il 31 ottobre, il professor Scaglione - che ringrazio pubblicamente - ha inserito all’interno del braccio 2 placche, con una quindicina di chiodi per tenere insieme tutti i frammenti ossei che si erano staccati. Dopo 30 giorni di gesso, ho iniziato la rieducazione 2 volte al giorno, più tanti esercizi da solo e così sono potuto tornare ad arbitrare a distanza di 2 mesi esatti dalla caduta».
E' tornato in campo in Abruzzo, a Teramo. Ha mai pensato che l’incidente avrebbe potuto impedirle in ritorno all'attività arbitrale?
«No, non ci ho mai pensato. Sono un ottimista per natura e, conoscendomi, sapevo che avrei fatto l’impossibile per rientrare presto e in buona condizione. Devo confessare che la sera subito dopo l’operazione, che è stata lunga durando circa 3 ore e mezzo, al risveglio dall’anestesia, il professore che mi ha operato mi ha illustrato tutta la dinamica e mi ha detto che avrei perso circa il 30% della funzionalità dell’arto e buona parte della flesso estensione, anche se con una buona rieducazione qualcosa avrei potuto recuperare. La mia risposta è stata che per le feste di Natale sarei tornato in campo».
Lo sport ha avuto sempre uno spazio importante nella sua vita. Ha giocato a rugby, ha frequentato un corso da allenatore di basket e infine l'arbitraggio. Dal suo punto di vista privilegiato, ci dica: è meglio giocare, allenare o arbitrare?
«A me piace moltissimo ogni settore, anche se da giocatore forse una persona non si rende conto di tutto il lavoro che sta dietro ad una squadra e, una volta finita la partita, finisce tutto. L’arbitro si trova in una fase intermedia, perché deve tenere presente tutti gli aspetti che riguardano una partita: tecnici, tattici, psicologici e ambientali. Solo con l’esperienza arriviamo a renderci conto di quanto sia importante una gara e spesso, nei viaggi di ritorno, mi trovo a pensare a quello che è successo e quello che potrebbe succedere. Anche gli arbitri vengono valutati e ogni gara determina un aggiornamento della classifica. Talvolta pensiamo solo a quell’aspetto e dimentichiamo che siamo una parte del gioco, non la più importante. Allenare forse è la naturale evoluzione per un appassionato di sport ed è l’aspetto più completo e complesso. L’allenatore non stacca mai e i suoi pensieri sono concentrati 24 ore al giorno su questo, alla fine della gara però c’è una situazione di totale appagamento con ogni risultato, anche se con quello positivo la sensazione è bellissima. Ritengo che ci sia un’età giusta per fare ogni cosa e ogni aspetto va vissuto per capire cosa sia lo sport».
Quali sono le qualità basilari buone sia per un giocatore, sia per un allenatore, sia per un arbitro?
«La più importante è la passione. Passione che deve sempre essere la molla che spinge uno sportivo a migliorarsi, ad andare in palestra ad allenarsi, ad aggiornarsi tecnicamente. Un’altra qualità è la pazienza che ogni componente del gioco deve avere, per sapere attendere che i propri meriti vengano riconosciuti e continuare sempre a lavorare con grandissima intensità. Infine il talento, ma questo appartiene a pochi eletti e deve essere coltivato. Forse per un uomo di sport la sensazione più brutta è veder sprecare il talento da parte di giocatori e arbitri. Ecco: sprecare il talento è un peccato mortale».
E quali sono, invece, le qualità "confliggenti", a suo avviso?
«Non credo ce ne sia qualcuna. Forse la presunzione, che fa ritenere uno sportivo già arrivato oppure non abbastanza considerato dalle altre componenti. Ognuno dentro di sé crede di essere il miglior giocatore, allenatore o arbitro, ma se poi si piange addosso e non fa niente per ribaltare una situazione negativa, questo è un errore».
Lei è anche il preparatore atletico degli arbitri di calcio. La prendono mai in giro, visti i loro stipendi, i colleghi che regolano l'arte pedatoria?
«No. L’argomento economico e la differenza tra la nostra e la loro Serie A o, come vengono chiamati in Europa i migliori internazionali, “top class”, non è mai trattato. Affrontiamo spesso l’argomento partita, soprattutto quello della gestione della gara. Da loro vediamo spesso proteste esasperate fin dai primi minuti della gara, spesso su situazioni banali e a confronto le proteste dei nostri tesserati, allenatori e giocatori, sono a livelli da scuola elementare. Da loro invece dovremmo prendere l’esempio della “fedeltà”, del rispetto nei confronti dell’AIA (Associazione Italiana Arbitri) e quindi l’accettazione delle decisioni che vengono prese da chi è competente e che determinano le carriere. Infine, per l’esempio che ho io direttamente con l’arbitro internazionale Banti e l’assistente di Serie A Niccolai: la loro voglia di allenarsi sempre con ogni clima e dopo ogni partita andata bene o male».
C'è anche la preparazione atletica dei fantini. Ambiti diversi - calcio e ippica - significa anche fare lavori sul piano atletico molto diversi?
«Sì. Quando ho iniziato con i corsi per allievi fantini, avevo idee abbastanza stereotipate sulla loro preparazione. Alla fine di un percorso di confronto con altri insegnanti della scuola, sono arrivato a dare una grande importanza agli esercizi di propriocettiva, seguiti da esercizi di core stability e mobilità articolare generale. Questi ragazzi hanno delle doti incredibili, vuoi per l’altezza (difficilmente superano i 165 cm) sia per il peso (sui 45 kg) e se adeguatamente stimolati riescono a raggiungere degli obiettivi impensabili per loro. Ne cito due, che hanno vinto la classifica dei fantini in Italia negli ultimi due anni e stanno ottenendo grandi successi in campo internazionale: Umberto Rispoli e Christian Demuro. Gli arbitri di calcio, invece, privilegiano molto di più lavori aerobici e capacità di ripetere sprint. Ho inserito esercizi posturali, perché la postura per un arbitro di calcio è fondamentale e l’aspetto visivo ancora più importante».
Quando e perché ha scelto di diventare un arbitro di basket?
«In realtà la scelta è maturata da sola. Dopo poche partite arbitrate, erano 8, fui designato per una partita del campionato di Promozione, insieme ad un arbitro di più alto livello, Maurizio Sola, che al tempo arbitrava in Serie C e alla fine della partita pensai che mi ero divertito veramente. Dopo pochi giorni andai al Comitato Zonale e parlando con la responsabile, Loredana Casini, chiesi cosa dovevo fare per proseguire con l’arbitraggio, invece che rimanere allievo allenatore. A quel tempo, infatti, i corsi arbitri venivano svolti insieme, arbitri e allenatori, e i tecnici dovevano arbitrare 40 partite. Da allora, come arbitro non mi sono ancora fermato e continuo a divertirmi andando in campo».
Quali sono i suoi "maestri" o i suoi "modelli di riferimento" nell'arbitraggio?
«Sono un autodidatta. Fino all’incontro con Ninì Ardito, avvenuto quando ero un arbitro di Serie C, non ero troppo attratto dal mondo arbitrale. Giocavo a rugby, sono arrivato fino alla Serie B come mediano di apertura, e andavo ad arbitrare quando avevo tempo. Ricordo che in Serie D rifiutai, nei primi 3 mesi di campionato, 6 gare perché concomitanti con partite di rugby, e ricevetti una telefonata dal compianto Bruno Duranti, allora designatore, che mi chiese cosa volessi fare. La mia risposta fu che gli avrei inviato il calendario della mia squadra di rugby, così avremmo risolto i problemi. Ardito è stato il primo a farmi capire cosa dovevo fare per migliorarmi e a propormi cose nuove e traguardi da raggiungere. Alla fine, a farmi scegliere definitivamente l’arbitraggio fu un brutto infortunio nel 1993 (ci risiamo!), occorsomi durante una partita di rugby. Ero in Serie B2, come arbitro, e decisi di dedicarmi con maggior impegno all’arbitraggio, anche se agli occhi dei miei compagni di squadra di rugby feci la figura del traditore. Una delle mie prime partite di Serie A la arbitrai con Rino Colucci. Era un Imola-Virtus Bologna e riuscii a non sfigurare, grazie anche al collega, e capii che potevo starci anch’io in quel campionato. Al momento, un modello di riferimento è Gigi Lamonica, che in campo ha veramente una marcia in più e bisogna stare più che concentrati in campo per non “rimanere indietro”».
Ci dica, da preparatore atletico che fa anche l'arbitro: come giudica – complessivamente - la preparazione atletica delle squadre di Serie A? E quali, se ve ne sono, gli aspetti che secondo lei andrebbero migliorati negli atleti?
«Mi sembra che le squadre di Serie A siano tutte ottimamente preparate e non saprei da dove incominciare per dare dei consigli. Per quanto riguarda i giocatori delle serie minori, trovo un po’ di trascuratezza sull’argomento prevenzione infortuni, specialmente per ciò che riguarda la schiena, sollecitata oltremodo nel nostro sport».
Quali sono i suoi obiettivi futuri, professionalmente parlando?
«Ripetere una Finale Scudetto e mantenere il livello delle prestazioni il più elevato possibile, cercando sempre di migliorare. Per quanto riguarda gli altri aspetti lavorativi, sono soddisfatto così».
In relazione alla querelle dello scorso campionato con coach Recalcati, che l'accusò di averlo insultato, la FIP ha disposto l'archiviazione dell'indagine. A livello umano, lei e il coach vi siete poi riparlati o chiariti? E qual è la sua riflessione sulla questione?
«No, non ci siamo più chiariti. Mi è dispiaciuto essere etichettato da tutti, a priori, come il maleducato. Passare come “il male del basket italiano” mi è sembrato sinceramente eccessivo e fuori luogo. Poi le cose, al termine dell’inchiesta durata tre giorni da parte del Procuratore Federale Alabiso, si sono chiarite. La Fip ha emesso un comunicato in cui chiedeva di “stemperare i toni” e, in quel momento, ho capito di essere finito in un meccanismo molto più grande di me. Figurarsi che a Livorno c’è sempre qualcuno che mi chiede come sia finita la vicenda e cosa sia successo veramente. In quei momenti mi ha fatto molto piacere la solidarietà dei colleghi e di alcuni allenatori che ho trovato sui campi. La riflessione che mi porto dentro è che lo stress può giocare brutti scherzi e, prima di dare un giudizio o un’accusa, occorre aspettare un po’ e valutare il tutto con la massima serenità. Nel nostro mondo, ogni parola e ogni gesto può essere interpretato in molti modi differenti».