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È il cinema, bellezza! [La settima arte vista da Lorenzo Rastelli]
LO SPECCHIO: IL PIÙ GRANDE POEMA VISIVO DELLA STORIA DELLA SETTIMA ARTE.
La locandina del film ‘Lo specchio’.

Andrej Tarkovskij.

Una scena del film.

Lorenzo Rastelli, cinefilo classe 2000, continua la sua collaborazione con ROSETO.com recensendo ‘Lo specchio’, film del 1974 del regista russo Andrej Tarkovskij.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 28 Settembre 2017 - Ore 11:00

Un antico granello di saggezza popolare recita “Non c’è due senza tre“ ed è proprio attenendomi a questo detto che, trascorsa l’estate, sono nuovamente davanti al mio computer per provare ad esternare  agli appassionati che seguono la mia avventura da “critico cinematografico“ le emozioni che suscita in me la visione di una pellicola a cui sono particolarmente affezionato…

Infatti, questa recensione rappresenta la volontà di riavvicinarmi alla “mia” opera d’esordio, quindi, nonostante ritenga necessario che un analista di qualsiasi forma d’arte debba avere come punti di riferimento dei parametri oggettivi, credo nello stesso tempo che una recensione possa risultare più accattivante quando chi scrive è talmente coinvolto da rivelare, consciamente oppure no, una parte corposa di sé.

Il film di cui mi accingo ad argomentare oggi è “Lo specchio“, pellicola sovietica datata 1974 che porta la firma di un’autentica divinità della Settima Arte ovverosia il mai troppo venerato maestro Andrej Arsenevic Tarkovskij (1932-1986).

Parlare di questo film per me è al contempo estremamente difficile ma altrettanto necessario; questo apparente contrasto scaturisce dal fatto che nonostante sia un film pregno di tematiche di difficile trattazione, che di certo non potranno essere sviscerate tutte esaurientemente in questo modestissimo contributo, rappresenta insieme a “Viaggio a Tokyo“ (1953) del maestro giapponese Yasujiro Ozu (1903-1963) la pellicola che ha maggiormente alimentato il mio indissolubile amore per il cinema.

Posso certamente affermare, con profonda consapevolezza, che queste due opere, pur essendo sensibilmente differenti tra loro, hanno scavato in egual misura un solco immenso rispetto al resto dei film che ho visto e non solo per quel che riguarda la mia formazione cinefila...

Prima di addentrarmi nelle digressioni relative a “Lo specchio”, apro una necessaria parentesi dedicata al regista russo Tarkovskij, uno di quegli uomini che l’ottimo cantautore genovese Ivano Fossati (1951) sembra splendidamente descrivere quando intona “Per niente facili, uomini sempre poco allineati“, nella celebre canzone “La musica che gira intorno” (1983, tratta dall’album “Le città di frontiera”)…
Questa definizione, infatti, sembra cucita addosso da sempre a Tarkovskij, poeta prestato alla Settima Arte e capace di rivoluzionare quest’ultima con intelletto e genialità.

Quest’uomo eccezionale, che oggi manca terribilmente in un panorama cinematografico asfittico, tristemente dominato dalla legge del guadagno e da produzioni che ostracizzano chi viaggia, per dirla con l’immenso Fabrizio De Andrè (1940-1999), in direzione ostinata e contraria, nasce, dal punto di vista artistico, nell’Unione Sovietica che sta molto lentamente uscendo dalle convenzioni culturali imposte da Stalin, le quali concepivano il cinema principalmente come un mezzo per produrre documentari di matrice propagandistica, in cui la componente religiosa risultasse completamente assente…

In sintesi, il movimento artistico russo, nonostante i progressi nella tecnica ottenuti grazie soprattutto ai registi Ejzenstejn (1898-1948) e Vertov (1896-1954), continuava a rimanere inevitabilmente bloccato dai canoni legati all’ottenimento del consenso e anche i sopraffini cineasti sopracitati, quando tentarono di oltrepassare le regole, furono tristemente oggetto di quella che i romani avrebbero chiamato “damnatio memoriae“…

In un contesto così avverso alla libertà di espressione, non è difficile dedurre che una personalità come Tarkovskij, poco incline al totalitarismo comunista e soprattutto, come già ricordato, molto legato alla tradizione ortodossa, ebbe continui problemi con il regime, ostacoli che lo costrinsero, sul finire della sua vita, a recarsi come esule prima in Italia, dove girerà, grazie anche a una collaborazione con la Rai, “Nostalghia” (1983), e in seguito in Svezia, dove chiuderà la sua purtroppo breve carriera con “Sacrificio” (1986).

A mio modesto avviso, l’eredità artistica più importante di Tarkovskij - oltre al suo magistrale uso dei colori che approfondirò nel corso di questa recensione – credo sia la sua capacità di comporre immagini che oltre ad essere sublimi sono in grado di regalarci emozioni, seppur delicate, sempre straordinarie…

Ma veniamo al film!

Dopo un breve prologo in cui ci viene mostrata un’ipnosi utile per far guarire il protagonista dalla balbuzie, appare la figura della madre del  protagonista. 
Il concetto di figura materna avrà un ruolo decisivo per tutto il film; infatti, l’opera si può interpretare sia come un flusso di ricordi apparentemente sconnessi del protagonista, che possiamo ritenere a ragione un alter ego del regista in quanto questo è indubbiamente il film più autobiografico di Tarkovskij, sia come una riflessione filosofica sulla figura della madre declinata in tutte le sue forme.

La prima figura che incarna l’idea materna a finire sotto la lente d’ingrandimento del regista è Madre Natura (non quella di Paolo Bonolis!) che viene subito posta al centro di un dialogo tra la madre del protagonista e un medico che ha presumibilmente sbagliato strada; di Madre Natura viene esaltata principalmente l’immobilità e la capacità di rimanere quieta di fronte ai turbamenti, peculiarità che secondo il medico dovrebbe essere adottata anche dagli uomini. La scelta del regista di porre in incipit della sua analisi filosofica la Natura non è casuale: infatti, nella storia della filosofia, la base da cui partirono i presocratici è proprio l’osservazione di ciò che li circondava.

Questa modo di procedere graduale accompagnerà l’intera riflessione filosofica e storica della pellicola, poiché si passerà dalle riflessioni sulla Natura a quelle sui rapporti umani per giungere infine a quelle sulla storia e sui totalitarismi.

Altro elemento caratterizzante del film è la presenza delle poesie del padre dell’autore che sono utili per scandire il ritmo all’interno della pellicola, aiutandoci a metabolizzare meglio i vari momenti di quest’ultima…

Nella prima poesia si descrive l’incontro tra la madre protagonista del film e il padre di Aleksej che avviene in un locus amenus ai limiti del paradisiaco; la dolcezza del primo amore viene però tremendamente spezzata dal regista che, dopo la fine del componimento, ci mostra l’incendio di un casolare e poi una scena ai limiti della realtà in cui assistiamo alla destrutturazione del mondo reale, che avviene tramite la simbolica frantumazione di un lampadario, in seguito alla scoperta della tragica morte del padre del protagonista.

Ciò che però conferisce a questa sequenza un ruolo decisivo è l’apparizione per la prima volta del bianco e nero che sarà la modalità espressiva tramite la quale il regista trasmetterà ai suoi spettatori l’angoscia dei momenti più strazianti dell’opera (e fidatevi non mancheranno!).

L’uso dei colori nel cinema del vate russo merita un approfondimento in quanto avrebbe rappresentato in seguito un notevole punto di riferimento per molti registi contemporanei. Tarkovskij trasmette il senso di tremenda impotenza e ansia con un bianco e nero sporco che trasuda ineluttabilità e questa concezione del colore verrà successivamente interiorizzata e fatta evolvere da Bela Tarr (1955), venerabile regista e sceneggiatore ungherese, il quale per raccontare le parabole apparentemente ripetitive degli uomini senza possibilità di redenzione (Nido familiare, Satantango, Il cavallo di Torino) ricorrerà ad una scelta cromatica molto simile al bianco e nero di tarkovskiana memoria.

Per quanto riguarda, invece, la creazione di un luogo evocativo e malinconico, credo sia lecito osservare che la lezione del cineasta sovietico sarà ripresa magistralmente da un suo connazionale ovverosia Alexander Sokurov (1951) che in “Madre e Figlio” (1997) - opera che tra l’altro offre molti rimandi tematici a “Lo specchio” - sceglierà una colorazione molto simile, prevalentemente dominata dalle tonalità degli alberi e della luce solare per rappresentare i paesaggi naturali.

Ma torniamo a bomba…

Con l’incalzare della trama ci viene esplicitato chiaramente l’insofferenza dell’autore verso il sistema sovietico che, nonostante stesse iniziando ad uscire dal modello staliniano, risentiva ancora di una fortissima limitazione delle libertà individuali….

L’incontro con questa realtà avviene nel momento in cui ci troviamo davanti agli occhi la redazione giornalistica in cui lavora la madre del protagonista; la scelta di rappresentare proprio una redazione giornalistica, ovviamente, non è casuale poiché la prima fonte di libertà per un popolo è costituita senza ombra di dubbio dalla possibilità di accedere al maggior numero di informazioni possibili e all’epoca, in assenza degli strumenti  la cui fruizione per noi oggi è abituale, la prima fonte di notizie era il giornale che, per usare un eufemismo, veniva filtrato ad arte (come in ogni dittatura degna di tale nome!) da chi deteneva il potere.

Il clima di angoscia che aleggia in tutta la redazione è evidente sin dalle prime inquadrature e raggiunge un climax ascendente nel momento in cui la protagonista della scena sospetta di aver scritto, in un articolo già pronto per finire sui giornali, una parola non consentita che viene sussurrata dalla stessa all’orecchio di una sua collega, impedendo allo spettatore stesso di comprendere quale sia il vocabolo incriminato.

Il clima di palpabile depressione mista ad un costante senso di paranoia (sempre accentuato con il meraviglioso bianco e nero di cui sopra) si ripercuote inevitabilmente anche sugli esseri umani che diventano incapaci di instaurare un dialogo che non sfoci in un’angoscia opprimente  o nell’offesa gratuita…
Ciò è perfettamente esemplificato in uno scambio di battute tra la protagonista della scena e la collega che, per criticare il modus vivendi della sua interlocutrice, l’apostrofa in maniera immotivata dandole addirittura (tramite un riferimento a Dostoevskij) della prostituta...

Proseguendo nel modesto tentativo di analizzare una delle opere capitali della storia del cinema, occorre soffermarsi brevemente sul protagonista adulto e soprattutto sulla figura femminile che lo accompagnerà per il resto dei suoi giorni, in quanto costei è interpretata dalla stessa attrice che recitava nel ruolo della madre…

Ci viene così palesato uno dei temi portanti del film, cioè il doppio.
Il doppio è collegato inevitabilmente alla figura del protagonista il quale risulta incapace di distaccarsi dalla figura materna, che ha rivestito un’importanza molto marcata nella sua crescita, scegliendo quindi una donna identica nell’aspetto e preponderante rispetto a lui anche nella personalità.
Ora è giunto il momento spartiacque di tutta la recensione in quanto i cardini su cui si poggia  la  riflessione che sta alla base dell’opera  subiscono un radicale mutamento...

Infatti, a questo punto l’interesse del regista si sposta, nel senso che non si focalizza più su un rapporto tra esseri umani legati dallo stesso sangue ma su una riflessione che pone al centro due figure materne che dovrebbero accomunare tutti gli uomini (Madre Storia e Madre Pace) ed è semplice capire il perché queste considerazioni, seppur fatte in contesti e momenti diversi, vengono esplicitate da due bambini, che rappresentano gli incaricati per preservare due componenti la cui conoscenza dovrebbe essere alla base della coscienza umana…

Il figlio del protagonista, che ha un rapporto conflittuale con il padre reo di essere assente e distante, entra in una dimensione onirica in cui viene invitato da due donne a leggere l’estratto di una lettera del poeta russo Puskin (1799-1837).
In questa pagina è contenuta una riflessione sulla Russia vista come terra di confine sempre fragile e costantemente invasa ma nello stesso tempo come congiunzione della cultura ortodossa e di quella dei barbari slavi.

Il regista, inevitabilmente influenzato dalla sua forte conoscenza della tradizione ortodossa, vede nella religiosità, che già salvò la Russia dai tartari nel XV secolo, l’unica via di salvezza da un’epoca buia, violenta e opprimente.
Per quel che concerne la riflessione sulla pace, il maestro sovietico ci mostra un preadolescente ribelle che trema nel sentire le ripetute granate inutilmente scagliate in un addestramento che impediscono la libertà di movimento e ci portano ad uccidere un nostro simile la cui unica colpa - come cantava l’irraggiungibile Fabrizio De Andrè nella celebre Guerra di Piero (1964) - è indossare la divisa di un altro colore.

In seguito, ci vengono mostrate dal regista, tramite un’analessi (flashback), varie immagini di guerre ancora impresse nella memoria dei contemporanei tramite l’utilizzo di un color seppia che diventerà caratteristico in “Stalker“ (1979)…
Coerentemente, Tarkovskij dipinge i presunti “grandi condottieri” come fantocci senza scrupoli, schiavi della loro crudeltà e soprattutto dell’incapacità di riflettere sulle malvagità che perpetrano ai loro simili. 

Sarebbero davvero un’infinità le altre sequenze meritevoli di essere prese in esame però correrei il rischio di conferire a questa analisi un tono noiosamente didascalico, ragion per cui mi limiterò ad effettuare una quanto più possibile esaustiva digressione sul finale del film che potremmo definire circolare  e catartico in quanto si basa ancora sul ritorno della figura materna che, come già ricordato, ha rappresentato in varie forme il vero collante di tutto questo flusso di ricordi…

Nel finale possiamo osservare la vera madre del regista che, in un tenero cameo, prende per mano il figlio bambino scrollandosi di dosso, in vecchiaia e sotto lo sguardo vigile del protagonista adulto, lo sguardo austero e l’aura di timor reverenziale che l’aveva contraddistinta per tutto il poema immaginifico, simboleggiando non solo la congiunzione delle due fasi della nostra esistenza che sono incarnate dal figlio spettatore e dal bambino che gioca con l’anziana ma anche la catarsi di una donna che, dopo una vita di tormenti e urla silenziosamente represse, trova, prima della fine dei suoi giorni, la tanto agognata pace.

In conclusione, aldilà del tourbillon di emozioni che questo capolavoro continua a generare in me, considero “Lo specchio” un meraviglioso poema visivo che narra il viaggio dell’esistenza di un uomo tanto maestoso quanto fragile, paragonabile in questo senso alla terra in cui ha trascorso la maggior parte dei suoi giorni.
Al contempo, però, questa preziosa pellicola ci induce ad una riflessione quanto mai necessaria, ovverosia che, in un momento in cui le certezze di ogni uomo sono messe a repentaglio da eventi imprevedibili e spesso drammatici, la Madre (in tutte le sue forme!) rappresenta sempre una insostituibile colonna di cemento armato per un amorevole, armonico ed equilibrato percorso di crescita di ogni essere umano.

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Lorenzo Rastelli
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