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Domenica, 8 Settembre 2024 - Ore 3:37 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

Abruzzesi buoni per il mondo
MARCELLO DI RUSSO: DA PESCARA A NEW YORK, CON L’ABRUZZO NEL CUORE.
Marcello di Russo, assistente allenatore del City College di New York nella stagione 2023/2024, durante un timeout.
[Courtesy of CCNY Communications & Sports Information, Sebastian Bush].


Il Nat Holman Gymnasium, campo di gioco delle Beavers del City College di New York.
[Courtesy of CCNY Communications & Sports Information, Sebastian Bush].


Amarcord Antoniana. Da sinistra: i due under Marcello Di Russo e Gianluca Capponi, assieme al funambolico italo-argentino Lisandro Liguori.
[Fabio Carusi]


Intervista al primo coach di formazione italiana a essere stato nominato capo allenatore di una squadra NCAA di basket. Eccezionale rassegna di ricordi, con nomi, fatti e circostanze che partono da Roseto e dalla promozione in A1 del 2000!

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedì, 30 Aprile 2024 - Ore 20:00

Chi ha inventato la regola dei 24 secondi, salvando dal possibile fallimento il basket?
Un abruzzese, ovviamente!
Si chiamava Daniel, detto Danny, Biasone ed era nato a Miglianico, in provincia di Chieti, il 22 febbraio 1909.
Emigrato in America, dopo aver acquistato nel 1946 i Syracuse Natyonals (diventati Philadelphia 76ers nel 1963), nel 1954 Biasone propose la regola di limitare a 24 secondi il tempo a disposizione degli attacchi per concludere un possesso.
Biasone, morto a Syracuse il 25 maggio 1992, vinse il titolo NBA con i suoi “Nats” nella stagione 1954/1955 ed è “Naismith Memorial Basketball Hall Of Fame” dal 2000.

Passano 70 anni secchi. Settanta.

Chi è il primo coach di formazione italiana a essere nominato capo allenatore in una squadra di basket della NCAA?
Un abruzzese, ovviamente!
Si chiama Marcello Di Russo, classe 1998, e viene da Pescara.
Allenerà nella prossima stagione il City College di New York, squadra femminile di Division III.

Potevamo noi di Roseto.com non intervistarlo? No!
Quindi ci siamo proposti... scoprendo che Marcello si è innamorato del basket proprio grazie al Roseto promosso in Serie A nel 2000! Quello con il newyorkese volante Abdul Fox, a proposito di Grande Mela!

Questa è la conversazione con coach Marcello Di Russo, che ringrazio della pazienza –  davvero atlantica! – e dell’eccezionale qualità dei suoi ricordi vivissimi, nonostante si parli spesso di cose accadute un quarto di secolo fa!

Ultima riflessione: Marcello Di Russo si è innamorato del basket nel 2000: l’anno in cui Danny Biasone è stato inserito nel “Naismith Memorial Basketball Hall Of Fame”. Jung parlerebbe di sincronicità. E Sting – con i Police – ci scriverebbe un album... se non l’avesse già fatto nel 1983!


Marcello, partiamo da Roseto (e da dove sennò?). Ma è vero che, a 11 anni di età, la tua prima partita di basket di serie A seguita dal vivo è stata Roseto-Jesi nella A2 1999/2000, quando perdemmo ma era la partita in cui festeggiammo la promozione in Serie A1, conquistata matematicamente nel turno precedente, pur perdendo sonoramente a Sassari?
«Ebbene si! E fu amore a prima vista. Finii al palazzetto quasi per caso, se non ricordo male mio padre entrò in possesso di un paio di biglietti tramite la sua azienda. Conservai i biglietti (erano arancioni) per molto tempo e, probabilmente, riuscii anche a “marcarli” con qualche autografo a fine partita. Erano gli anni in cui iniziavo ad “ammalarmi” per la pallacanestro e quel pomeriggio fu straordinario».

Cosa ricordi di quel Roseto Basket, che era dato penultimo nei ranking e composto da “cani malati” e che invece chiuse la bocca a tutti volando in A1 senza passare manco per i playoff, da prima al termine della stagione regolare (che bella regola che c’era!)?
«Purtroppo di quella squadra ricordo solo quel finale di stagione, poiché quella partita contro Jesi fu la partita che accese definitivamente la passione per Roseto. Come puoi immaginare, un ragazzino può rimanere impressionato da cose inusuali. Al di lá dell’atletismo di Fox e della potenza di Burditt, per qualche strano motivo, io rimasi impressionato dall’energia di Leo Busca, e il coro a lui dedicato: “Andava a 100 all’ora con la palla tra le mani… Leo Busca, Leo Busca… e non vedeva l’ora per bucare la retina… Leo Busca, Leo Busca!”. Oltre a quello, ricordo che uno degli under era Valerio Amoroso, di cui rammento un giovanissimo sguardo e smagliante sorriso durante la festa promozione».

Per quanti anni hai poi seguito, da “uagliòne”, il Roseto e qual è quello che ti è più caro?
«Per i due anni successivi, il PalaMaggetti (e poi, per breve tempo, il Palatricalle di Chieti) diventò la meta di un pellegrinaggio cestistico per ogni gara interna del Roseto. Il “rito” iniziava il giovedì, con la prevendita in una tabaccheria di Pescara, e finiva con la partita della domenica. In quel periodo, avevo la fissazione nell’intrecciare fili a “scooby-doo,” che provavo a vendere su commissione sottobanco a scuola, e ne feci uno bianco azzurro di oltre 2 metri (quasi 20 metri di filo da intrecciare e più di una settimana di lavoro!) che portavo al palazzetto con molto orgoglio. Non era il cartellone “Grande Roseto” di Giuliano Spizzico, ma era il mio portafortuna personale. Quanto ai ricordi...troppi! Soprattutto legati ai grandi campioni. Quel quintetto fu indimenticabile: i due “folletti dalla mano calda” (come dice simpaticamente mio padre) Gilmore (con un’acconciatura “militare”) e Attruia, poi SuperMario e i lunghi Guarasci e Lockart. Loro impersonavano esattamente tutto ciò che un tifoso poteva chiedere. Avevo un calendario/poster di quella squadra, che spesso tenevo fermo sul mese dove c’era la foto di Boni in fase di tiro in sospensione. Ti ripeto, un ragazzino vede e ricorda cose per alcuni “inusuali,” come per esempio la “Booooomba” dello speaker Carlo Charlie De Virgiliis o il riscaldamento di Attruia in cui, mentre tutti gli altri facevano stretching, lui tirava 10 tiri da tre saltellando – con percentuali che puoi immaginare. Io contavo, e ammiravo. A quello ci aggiungi che uno dei ragazzi che spesso faceva da “spazzolone” a Chieti era un certo Fabrizio Gialloreto, al tempo già fortissimo, il quale incrociavo sui campi giocati (lui è un anno più grande di me). A Gialloreto invidiavo più il fatto che lui era a bordo campo o a rimbalzo durante il riscaldamento delle partite del Roseto a Chieti che la sua pazzesca abilità nel giocare già da esperto playmaker a 13-14 anni. E poi gli avversari: ricordo una schiacciata allucinante, dopo una prestazione sorniona, di Ginobili quando venne la Virtus Bologna. Mentre, citando l’altra bolognese, le feste fra gli Ultras rosetani e i gemellati tifosi Fortitudini, con annessi cori a Carlton Myers. Inoltre, ci furono un paio di Trofei Lido delle Rose che mi rimasero impressi. Il 2000, con la Nazionale Italiana (riuscii a strappare l’autografo di Andrea Meneghin sul poster!) e quella Australiana dove vidi da vicino Luc Longley, solo due anni dopo essere diventato campione NBA con i Bulls di Jordan. E poi il 2002, dove si giocò in diversi palazzetti incluso il PalaElettra di Pescara. In quel palazzetto, di cui conoscevo molto bene ogni possibile porta d’accesso, mi intrufolai nella zona spogliatoio dove incrociai velocemente Pozzecco, al tempo in Fortitudo, e Raja Bell, al tempo al Tau Vitoria/Baskonia, il quale aveva giocato pochi anni prima in finale NBA con i 76ers di Allen Iverson contro i Lakers del duo Kobe-Shaq».

Il campione più caro ammirato nel Lido delle Rose e il coach più amato?
«Risposta troppo semplice: erano gli anni del guerriero Mario Boni e dell’americano Phil Melillo… che te lo dico a fare…».

Come è nata la passione per il basket?
«Io sono un’altra tipica storia di bambino sottratto al calcio, che poi si è innamorato perdutamente per un altro tipo di pallone. Avevo 6 o 7 anni e devo ringraziare un medico che sapeva benissimo il suo mestiere, ma fortunatamente capiva molto poco di pallacanestro. Fu lui che, per aiutarmi con l’asma, suggerì di giocare a pallacanestro perchè “si correva meno”. In più, avevo la Polisportiva Antoniana Pescara che faceva corsi di minibasket all’aperto nel mio quartiere, ed alcuni miei compagni di scuola già erano in squadra. A questo aggiungi che tra i 12 e i 15 anni mi sono ritrovato a fare parte di squadre giovanili molto forti... poi tutto è venuto da sé».

Mi hai ricordato che sei stato pure ospite a Sotto Canestro, ormai un quarto di secolo fa. Cosa ti ricordi, oltre al mitico Giorgio Pomponi e al compete Lorenzo Settepanella?
«Ricordo super. Erano gli anni in cui con l’Antoniana Pescara vincemmo tre campionati regionali di fila – e facemmo anche due interzona (ho giocato con ragazzi molto promettenti, devo ammetterlo!). Per me era un onore immenso sedere su quei gradoni semicircolari dello studio. Personalmente, seguivo costantemente Sotto Canestro ed il trio Maggitti-Pomponi-Settepanella. Tra l’altro, quando, anni dopo, vidi Pomponi in un incarico molto importante con la Lega Pallacanestro Femminile, e Sotto Canestro ripartire con un format più “social”, sono stato molto felice. Tornando a quel preciso giorno ricordo che, ad un certo punto della trasmissione, rigorosamente in diretta, il microfono girò tra i giocatori e ognuno dovette dire il proprio nome, cognome, e giocatore preferito. Stufo di sentire “Jordan”, io presi il microfono e iniziai con qualcosa tipo: “Dipende…”. Da quel momento, partirono 2 minuti di botta e risposta in cui provai a spiegare che bisognava dividere l’NBA dal nostro campionato e, se non ricordo male, conclusi scegliendo nomi come O’Neal, “Picchio” Abbio, e Mario Boni (al tempo giocavo con due polsini corti su entrambi gli avambracci in onore di Alessandro Abbio... erano gli anni di Parigi 99 e la Virtus del Grande Slam)».

Un’altra simpatica coincidenza è quando ci siamo sfiorati una sera in cui sono venuto a vedervi festeggiare la promozione in C1 con l’Antoniana Pescara di coach Gabri Di Bonaventura, che oggi ho l’onore di avere commento tecnico alle partite della Pallacanestro Roseto. Parliamo di una era tricologica fa: avevi i ricci, il numero 8 ed eri uno degli under, come da foto pubblicata su Roseto.com, giusto?
«Giusto. Quell’anno finii a fare l’under per un discorso di cartellini, più che tecnico. Praticamente mi ritrovavo in panchina la domenica senza nemmeno fare allenamento. Ribattezzato l’“Under-Taker” per le mie due ginocchiere che mi davano un aspetto un po’ da “ring”, riuscii comunque a giocare qualche spicchio di “garbage time” durante la stagione regolare segnando anche qualche punto (ma pochi), con un “career-high” di 5 o giù di lì contro L’Aquila. Quella squadra era “illegale” per la categoria, tanto che nel giro di due anni, e con pochi innesti durante il percorso, riuscirono a fare promozione C2-C1 e finale di Coppa Italia C1, con quasi promozione in B. Magistralmente guidata dall’esperto coach Di Bonaventura, quella era la squadra dei due italoargentini, Tano e Liguori. Io ammiravo il talento cristallino di Liguori, a cui vidi anche un fare un “elbow pass” durante una partita, cosa che, fino a quel momento, avevo visto fare solo a Jason Williams in un All-Star Game NBA non molti anni prima. Un talento puro che, come succedeva al tempo, non poteva giocare in categorie superiori per un discorso di passaporto. Un altro nelle stesse condizioni era Richotti, l’unico che quasi riuscì a fermare la cavalcata dell’Antoniana in una tiratissima finale contro Campobasso. Personalmente, sedendo in uno dei migliori posti del palazzetto (la panchina!), ero strabiliato nel vedere come Richotti stava per vincerla da solo contro una vera e propria corazzata. Fino a quando, capitan Liberatori, segnò un tiro complicatissimo da 3 sul finale di gara 4, a pochi secondi dalla fine. Di quella serata, indimenticabile fu l’arrivo negli spogliatoi con annesso urlo liberatorio del professor Dante Falasca, preparatore fisico e “anima” della squadra. Oltre a quello, ricordo un bell’abbraccio con Aldo Mirrione, con il quale quasi si litigò (simpaticamente) in macchina nel viaggio di andata verso Campobasso, discutendo se gli U2 avessero fatto bene o no a far uscire la cover del loro brano “One Love” con Mary J. Blige. Dettagli della festa promozione, soprattutto quella a Pescara di qualche giorno dopo, spero non saranno mai pubblicati... (io ricordo solo che il posto in cui trovai la squadra si chiamava “Hot & Nove”, n.d.r.)».

Da Pescara a Firenze. Per studiare?
«Sì, andai a Firenze per studiare Architettura, con l’intento di prendermi un momento di pausa dalla pallacanestro. Come puoi immaginare, la pausa durò molto poco. Verso la fine del mio primo anno ero già in palestra a lavorare con i corsi scolastici minibasket del Pino Dragons Firenze. Dopo meno di due anni, mi ritrovai ad essere Responsabile Minibasket per il Pino Dragons, a lavorare con alcuni gruppi giovanili e presto nel giro del Progetto di Qualificazione Nazionale culminato con la panchina da assistente al Trofeo delle Regioni con la rappresentative Toscana. Da non toscano, essere nello staff tecnico del Trofeo delle Regioni (perso in finale contro il Lazio!) è stato qualcosa che mi ha riempito d’orgoglio. Tornando agli studi, nel giro di due anni abbandonai la facoltà di Architettura e mi dedicai a tempo pieno alla pallacanestro».

A Firenze sei stato coinquilino di un altro amico: coach Stefano “Kinoppy” Corsini. Marcè, ma quanto è piccolo questo mondo, che vede Stefano a Firenze, te a New York e me – ovviamente – a Roseto?
«Stefano Corsini, semplicemente un maestro. Vivemmo in un appartamento affittato dalla società, ma purtroppo non allenammo mai insieme (per ora... mai dire mai!). Quello fu il mio ultimo anno a Firenze e il suo primo. Lui, livornese doc, arrivava da un’esperienza molto importante con la squadra femminile di Ghezzano, in provincia di Pisa. Il giovane allenatore e l’esperto professionista: se solo avessi potuto registrare le nostre casuali conversazioni di pallacanestro: vere e proprie lezioni di basket! Ti dirò di più: quando, l’anno dopo, andai ad allenare a Pontedera, passai un pomeriggio a salutare Stefano e incontrai il nuovo coinquilino che prese quella che era la mia ex-stanza. Un nuovo acquisto per la serie B della Pallacanestro Firenze, un certo Andrea Capitanelli. Penso che a Pescara qualcuno l’abbia conosciuto molto bene qualche anno dopo!».

È vero che da assistente allenatore hai pure incrociato SuperMario Boni, nell’inferno delle minors?
«Stagione 2013/2014, Juve Pontedera contro Monsummano, Divisione Nazionale C. Durante i miei quasi otto anni in Toscana, incrociai Boni direttamente e indirettamente più di una volta, ma quella fu l’unica sul campo, e da “avversari”! Noi una squadra di quasi soli under, loro una corazzata costruita per provare ad andare in Serie B. Non ci fu partita, ma “il bimbo che andava al PalaMaggetti”, dentro di me, non riusciva a smettere di ammirare la qualità e la vena competitiva con cui SuperMario giocava ogni pallone. Quella sera telefonai a mio padre subito dopo la partita».

Perché, dopo Pescara, Firenze e Pontedera, nel 2015 la scelta di trasferirti negli Stati Uniti?
«Una combinazione di avvenimenti. Feci una vacanza a New York nell’estate 2014, in cui andai a trovare un mio carissimo amico da anni negli States. Mi innamorai di New York, e al ritorno, spesi circa un anno nel capire come andare dall’altra parte dell’oceano. In più, a Pontedera, dopo 4 anni molto formativi e importanti dal punto di vista cestistico, mi sentivo un po’ a un bivio: continuare lì a lungo termine, oppure fare qualcosa di diverso. Preso dallo spirito del “ora o mai più”, decisi di fare il salto».

Ovviamente non ti sei preso due lauree in università statunitensi per allenare in NCAA e rispettare le regole, vero?
«Sì e no. Gli Stati Uniti sono molto complicati, e ti confermo che per allenare, e quindi essere assunti da un college, un bachelor (laurea da 4 anni), è pressoché indispensabile. Quando decisi di trasferirmi a New York, intuii molto presto che l’unico modo per arrivare legalmente era attraverso un visto studentesco. Supportato, come sempre, emotivamente ed economicamente dalla mia famiglia (mamma e papà, santi subito!), mi iscrissi ad un community college, scuola da 2 anni. In più, volevo provare a propormi come assistente in un ambiente di basso livello, dove avrei potuto mettermi in gioco sul campo. Dato che l’unica cose che poteva tenermi incollato ai banchi era la mia altra grande passione, la musica, decisi di intraprendere quel percorso di studi. Mi sono talmente innamorato del sistema universitario americano che, dopo aver completato il community college continuai i miei studi (bachelor e master). Ora, felicemente ammogliato e padre di una bellissima bimba, sono finalmente in possesso di una green card».

Sei il primo italiano a fare il coach in NCAA. Coach Ettore Messina – per qualche problema personale di coach Gregg Popovich, ha già guidato una squadra NBA (San Antonio Spurs) sporadicamente. Chi sarà invece, per te, il primo a iniziare una stagione da capo allenatore? O, anche, chi vorresti che fosse e per quali meriti?
«Qui c’e bisogno di una risposta divisa in due parti. Prima di tutto devo specificare che sono il primo allenatore di formazione italiana a essere stato mai nominato capo allenatore in NCAA. E quindi, il primo italiano che, dopo aver allenato in Italia, assume un incarico di questo tipo in NCAA. Per esempio, Geno Auriemma, l’allenatore più vincente in assoluto in NCAA femminile, è nato in Italia, anche se si trasferì in America da bambino, e perse tanti (se non tutti) i collegamenti con il Bel Paese. Per mia conoscenza, ci sono altri due “italianissimi” in NCAA, entrambi assistenti ed entrambi alla University of Arizona (Division I e livello altissimo!). Per il femminile c’è Salvo Coppa, cognome molto importante nella pallacanestro femminile italiana, e nel maschile Riccardo Fois, che è anche nello staff tecnico della nazionale di Pozzecco. Tra l’altro, Fois (che ho intervistato quando è venuto a Roseto con l’Italia Under 23, nell’estate del 2022, n.d.r.) ha giocato per un breve periodo a Firenze nella stessa società in cui facevo minibasket e giovanili. Dispiace constatare che né Messina né Scariolo siano riusciti a diventare capo allenatore in NBA e, come tutti sanno (anche qui negli Stati Uniti), è solo una questione di business e non di competenze. Pochi giorni fa è stato nominato uno spagnolo, Fernandez, alla guida dei Nets, e finalmente si vedono più Europei in panchina in NBA. Purtroppo, come è ormai dimostrato, gli europei arrivano a sedersi su una panchina NBA solo dopo molti anni di gavetta nel sistema statunitense. La scuola italiana di allenatori di pallacanestro è straordinaria. Sicuramente mi sento di nominare Banchi e Trinchieri per quello che stanno facendo a livello internazionale, ma, entrambi, molto più da Eurolega che da NBA (ti ripeto, solo una questione di struttura della lega e del business che c’è intorno). Tra l’altro, Banchi fece un’esperienza in G-League proprio con i Nets, ma non penso che quella rimarrá tra le sue esperienze più importanti (un altro che fece un percorso simile fu Mazzon, con Philadelphia). Occhio comunque a Federico Gallinari, fratello di Danilo, che è già nello staff tecnico della G-League dei Detroit Pistons! Tra gli allenatori in Serie A più giovani, ma solo se decidessero di intraprendere un percorso molto lungo da assistenti, mi vengono in mente Galbiati che ha fatto già una esperienza con coach Larry Brown a Torino e Brienza, che sta impressionando tutti a Pistoia. Ma ripeto, la difficoltà per un italiano non sono le competenze, ma un sistema NBA molto chiuso ed estremamente competitivo».

Nel 2020 hai conseguito il diploma in composizione musicale al conservatorio del Brooklyn College. Se la tua avventura oltreoceano fosse un’opera musicale (o una canzone), quale sarebbe e per quale motivo?
«Forse 4’33” di John Cage, per il semplice motivo che, anche se il pianista sa benissimo quello che sta facendo ed è apparentemente in totale controllo dell’esibizione, il risultato sonoro finale è totalmente stabilito dall’ambiente circostante. Fammi essere un po’ filosofico qui!».

Risposta di livello assoluto! Continuando sulla musica, ma è vero che avevi una band con Pier, artista del quale ho scritto nei giorni scorsi su Roseto.com?
«Qui si va alla preistoria! Durante il liceo mi divertivo a smanettare (da puro amatore) con chitarra e basso. Tramite amici comuni, finii a suonare in una band (se non ricordo male fu una cover band di Ligabue) per un anno o forse meno, e il tastierista era Pier. Lo seguo con molto affetto e ammirazione, da qui. Lui è diventato un musicista di primissima classe, e vedere la sua carriera spiccare il volo mi fa molto piacere».

Altro impegno, altra laurea: nel 2024 il Master in Arts Administration al Baruch College. Con riferimento alla precedente domanda, sono obbligato a chiederti un quadro della situazione…
«Presi la prima laurea (completa) in composizione musicale, tra l’altro studiando con compositori molto importanti e riconosciuti a livello internazionale. La cosa mi riempie d’orgoglio, ma riconosco che intraprendere un percorso lavorativo nella composizione musicale è qualcosa più vicina ad una “pazza” vocazione che ad una possibile carriera rimunerativa. Così, come molti colleghi, ho intrapreso una carriera nell’insegnamento e nell’amministrazione. La pallacanestro è, purtroppo, ancora un impegno part-time, quindi, durante la mattina, insegno storia della musica al community college dove iniziai il mio percorso da studente e allenatore, e lavoro come amministratore per importanti associazioni musicali e artistiche».

Hai lavorato in Toscana, eppure non hai mai incontrato un altro coach, e pure giornalista, come Alessandro Petrini – che conobbi nella A2 Silver 2013/2014 quando era a Lucca, a Roseto – che invece hai avuto modo di conoscere a New York. C’è modo di fare “sistema” fra italiani nella Grande Mela, in modo illuminato invece che clanico?
«Parto dal finale della tua domanda. Sì! In verità, una cosa che mi ha aiutato tantissimo a integrarmi a 360 gradi nei miei primi due anni a New York è stato – per motivi che non saprei nemmeno spiegare – non aver frequentato italiani. Appena arrivato, l’amico che venni a trovare l’anno prima partì subito per la West Coast, e io mi ritrovai in uno stato di “full-immersion” tra scuola, pallacanestro e vita in generale. Anche se, purtroppo, sono tornato in Italia solo un paio di volte negli ultimi nove anni, questo stato di “full-immersion” mi ha aiutato tantissimo nell’integrarmi in una cultura molto diversa dalla mia. Ho naturalmente trovato alcuni italiani solo dopo circa tre anni che ero qui. Uno di questi è Alessandro Petrini, con cui ho stretto una grandissima amicizia. Alessandro, giornalista (non solo sportivo) e allenatore con un passato tra le giovanili di Reggio Emilia e tanti anni a Lucca, è anche colui che guidò la selezione Toscana del lancianese Rullo alla conquista del Trofeo delle Regioni nel 2004. Tra l’altro, l’assistente di quella spedizione era un giovane Michele Catalani (oggi responsabile delle giovanili dell’Olimpia Milano, n.d.r.). Quando io iniziai con le giovanili in Toscana, Alessandro era già a lavorare con le prime squadre di Serie B a Lucca, e quando io iniziai a lavorare con i senior, lui era già più dedito alle sale stampa. Anche se abbiamo dozzine e dozzine di storie, anedotti e amici che ci accumunano, il destino ha voluto che ci si incontrasse solo qui, a New York».

Purtroppo non sei nato negli Stati Uniti, sennò avresti potuto perseverare e puntare alla Casa Bianca?
«Ma guarda, con tutto il casino che ho visto negli ultimi due mandati, lascio felicemente il compito ad altri».

Io non sono Pasquale Scarpitti e tu non sei Ennio Flaiano, ma ti chiedo ugualmente: cosa ti è rimasto di abruzzese?
«Umiltá e testardaggine che spesso si coagulano in determinazione. L’Abruzzo è casa. Nessuno può dire quanti anni rimarrò fuori, ma il posto dove sei nato e cresciuto ti rimane sempre addosso. E poi, qualche imprecazione nei momenti di rabbia, ma su questo lascio spazio alla tua immaginazione».

Chi ti ricordi fra i tuoi mentori, ai tempi del Pescara?
«Vado in ordine cronologico. Tra i miei primissimi allenatori c’è Gianfranco Vecchiati. Lui mi trasmise una grande passione e un pizzico di autostima di cui sicuramente avevo bisogno. Inoltre, con coach Vecchiati ho avuto il grandissimo piacere di condividere delle ore in palestra durante le mie primissime esperienze da istruttore minibasket l’anno prima di andare a Firenze. Dopo venne Sandro D’Incecco, con il quale ho passato molti anni e dal quale ho imparato tantissimo. Fu lui che mi mise in testa l’idea di provare ad allenare. Ancora oggi non so se era un gentile tentativo per farmi capire che come giocatore non avrei avuto un gran futuro o un’onesta opinione. Fatto sta che ancora oggi lo ringrazio infinitamente per quello che ha fatto. Poi venne un’altra “istituzione” dell’Antoniana Pescara, coach Bruno Pace, con il quale ho condiviso alcuni anni giovanili e da gregario della C2. Inoltre, ricordo con grande affetto due altri allenatori non pescaresi: uno è l’ortonese Attilio Busini, che, tra l’altro, dopo diverse avventure in giro per lo stivale, è finito ad allenare proprio a Firenze. L’altro è Gianluigi Cefariello, giovane allenatore campano che mi allenò negli ultimi anni di giovanile con il quale strinsi un rapporto molto genuino e amichevole».

Adesso sei il coach del City College di New York, basket femminile Division III. Qual è il tuo obiettivo a medio termine?
«Questo sarà il mio primo anno da Head Coach, ma il quarto complessivo a CCNY. Fui assunto da assistente subito dopo la pandemia, che portò dei danni giganteschi al programma. Siamo ancora in una fase di ricostruzione e, anche se le ultime annate sul campo non sono state per niente entusiasmanti dal punto di vista dei risultati, stiamo ripartendo con un gruppo di ragazze straordinarie dal punto di vista umano, alle quali stiamo piano piano aggiungendo qualità tecnica. Il mio responsabile del settore giovanile a Pontedera, Max Ormeni, mi insegnò che per costruire una cultura sportiva fatta di standard tecnici e umani alti ci vogliono tra i 3 e i 5 anni di duro lavoro e dedizione. L’obiettivo a breve-medio termine è quello di riportare solidità al programma».

E quello a lungo termine?
«La nostra Conference (CUNYAC) è composta di sole 8 squadre, con solo 2 o 3 turni di playoff a gara secca. La vincente va a “ballare” al torneo nazionale, la nostra Division III “March Madness”. Non nego che un’apparizione al torneo nazionale NCAA sarebbe un traguardo molto prestigioso, dato che CCNY non vince dal 1996 (anche se rimaniamo primi per numero di conference vinte, 10, tutte precedenti alla stagione 1995/1996)».

Il City College di New York è una università storica fondata nel 1847, che conta 12 Premi Nobel e 5 Campioni Olimpici (tutti nella scherma) tra gli ex studenti. Che effetto fa, quando cammini in quelle stanze?
«Fammi aggiungere che, situato nel cuore di Harlem, il City College of New York, fondato come Free Academy of the City of New York, è stato il primo college pubblico negli Stati Uniti. Qui, il 7 Aprile 1921, Albert Einstein iniziò il suo tour statunitense per conferenze in cui spiegava la sua teoria sulla relatività. Qui studiò il famoso diplomatico Colin Powell, e nel 1963 Rev. Dr. Martin Luther King Jr. ricevette una laurea ad honorem e fu invitato per il celebre discorso ai nuovi laureati. Stessa cosa successe per Michelle Obama nel 2016, allora First Lady, e nel 2022 per il Dr. Anthony Fauci. Capisco benissimo che qui negli Stati Uniti, generalmente, non hanno la presunzione di rinchiudersi negli sfarzi del passato, però ammetto che ogni tanto ci penso a dove sono finito. E non posso che essere stupito di questo posto».
 
La squadra di pallacanestro maschile del City College di New York è stata l'unica a vincere nello stesso anno (1950) sia il torneo NCAA sia il NIT. Tu con le tue castore (beavers), dove vuoi arrivare?
«Come dicevo prima, riportare il programma ad avere solidità in qualità e numeri, dentro e fuori dal campo. Poi si vedrà. Un’apparizione al torneo nazionale, ribadisco, sarebbe la ciliegina (grossa!) sulla torta».

Tre cose belle del vivere a New York?
«La possibilità di connettersi (pressoché facilmente) con persone di grandissimo spessore in ogni campo lavorativo. Avere tutto (ma proprio tutto) a portata di mano, a qualsiasi ora del giorno e della notte. I coffee shops!».

Tre cose brutte del vivere a New York?
«Vivere con la constante sensazione che tutto quello che fai non sia mai abbastanza. Il clima. La metropolitana, utile ma a dir poco vomitevole. ».

Tre cose che ti mancano dell’Abruzzo?
«Il profumo del mare d’inverno, quando andavo a giocare sul lungomare fino a che diventasse talmente buio che non si riusciva a vedere più i canestri. Il periodo natalizio tra famiglia, amici e scorazzate in centro. Lu magna di mammá!».

Grazie, Marcello. Appena torni in Abruzzo, a mo’ di rimborso per questa tua incredibile pazienza e dedizione nelle risposte, mi sdebito portandoti a mangiare in qualche posto super... che come sai qui non mancano!

Luca Maggitti Di Tecco
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