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Cinema
VITA E OPERE DI TONINO VALERII
Giuliano Gemma e Tonino Valerii, nel 2002 a Roseto degli Abruzzi, in occasione del festival cinematografico Roseto Opera Prima.
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Michele Placido e Tonino Valerii, nel 2010 a Roseto degli Abruzzi, in occasione del festival cinematografico Roseto Opera Prima.
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Mario Giunco.
[Luca Maggitti Di Tecco]


Mario Giunco ci regala una preziosa biografia di Tonino Valerii, regista abruzzese fondatore di Roseto Opera Prima, al quale la Fedic ha dedicato un premio inaugurato quest’anno alla 74^ Mostra del cinema di Montecatini.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 03 Luglio 2024 - Ore 11:30

La Fedic (Federazione italiana cineclub) ha istituito da quest’anno un premio per un regista esordiente, intitolato a Tonino Valerii.

Nel corso della 74^ Mostra del cinema di Montecatini (la terza più antica d’Italia, dopo quelle di Venezia e Salerno) che si è svolta dal 19 al 23 giugno 2024, il riconoscimento è stato attribuito a Elisabetta Pellini per l’episodio “L’amore nonostante tutto”, tratto dal film “Selfiemania” con Milena Vukotic e Andrea Roncato.

Scrive nel catalogo Paolo Micalizzi, direttore artistico del Festival di Montecatini: «Tonino Valerii è stato dal 1996 ideatore e direttore artistico del Festival “Roseto Opera Prima” di Roseto degli Abruzzi, che ha curato fino al 2013, nel quale ho ricoperto per otto anni, su suo invito, il ruolo di responsabile dell’Ufficio Stampa dal 1999 al 2007. Quel Festival era dedicato ai debutti cinematografici. Per questo motivo un premio a lui intitolato non poteva che privilegiare gli autori esordienti».


TONINO VALERII


Tonino Valerii (1934-2016) è stato tardivamente riscoperto dai giovani, da Quentin Tarantino in particolare,  attraverso retrospettive e rassegne in Italia e all’estero. La sua scomparsa è avvenuta in concomitanza con la pubblicazione, presso l’editore statunitense Mc Farland, del volume “Tonino Valerii. The Films” di Roberto Curti, autore, in precedenza, dell’altra fondamentale monografia “Il mio nome è nessuno. Lo spaghetti western secondo Tonino Valerii” (Roma,  Un mondo a parte, 2008). Secondo Curti, il corpus delle opere di Valerii è qualitativamente consistente, ma numericamente sparuto (nove film in undici anni, dal 1966 al 1977, quasi tutti di notevole successo popolare). “Poi – continua Curti – una réntrée dignitosa, a partire dalla metà degli anni Ottanta e l’inevitabile approdo alla televisione, comune a tanti cineasti della sua generazione: un buen retiro vissuto con stoico professionismo e malcelata irritazione nei confronti del continuo calo di professionalità, della sciatteria elevata a sistema, di un patrimonio di conoscenze sacrificato all’audience”.
 
Antonio (Tonino) Valerii nasce a Montorio al Vomano (TE) il 20 maggio 1934. Frequenta le scuole superiori  a Teramo, appassionandosi al cinema.  Conseguita la maturità, si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove si diploma in sceneggiatura e regia con Alessandro Blasetti. Il saggio finale di regia è un adattamento del “Diario di Anna Frank”, lodato da Blasetti. Nel 1959 entra nella Jolly Film come capo ufficio edizioni. Blasetti lo chiama, nel 1961, a fargli da assistente (non accreditato) in “Io amo, tu ami…” e in “I due nemici”. Nel 1962 è assistente  di Camillo Mastrocinque in “I motorizzati” (con Franchi e Ingrassia, Ugo Tognazzi, Walter Chiari) e, nel 1963, aiuto regista (ma regista a pieno titolo) di “Tutto è musica” di e con Domenico Modugno. Insieme a Ernesto Gastaldi, compagno di studi in Accademia, nel 1964 scrive le sceneggiature di due “horror”, “La cripta e l’incubo” e “I lunghi capelli della morta”, portati sullo schermo, rispettivamente,  da Camillo Mastrocinque e da Antonio Margheriti.  Il suo incontro con Sergio Leone data  al 1963, quando riscrive, in base alla sceneggiatura  originale smarrita, i dialoghi di “Per un pugno di dollari”, il western che segna un’epoca,  non solo nel cinema italiano. Due anni dopo Valerii è aiuto regista di Leone in “Per qualche dollaro in più”.

Ormai l’apprendistato volge al termine. Il debutto nella regia avviene nel 1966 con “Per il gusto di uccidere”. Il protagonista (Craig Hill) è un cinico cacciatore di taglie, che sa leggere solo i numeri stampati sui soldi, un parente prossimo di Clint Eastwood, lo straniero senza nome dei film di Leone.  Ma, a differenza di quest’ultimo,  non raccoglie le simpatie dello spettatore. È un personaggio ambiguo, un eroe – nota Curti – “privo di etica, il quale, nella scena iniziale,  lascia che i banditi massacrino un convoglio di soldati,  per poter recuperare il maltolto e guadagnarsi la ricompensa. Non si sporca le mani più del necessario”. Già nel suo primo film, Valerii cerca una strada autonoma,  rispetto a Leone. “Mi attenevo scrupolosamente – ha detto il regista – all’ABC: master, divisione del master, movimenti di macchina, a che battuta si doveva arrivare per poi tagliare. Non c’erano invenzioni come nei film di Monte Hellman, che sono in apparenza molto disordinati, ma anche molto liberi, sperimentali nell’uso della grammatica cinematografica. ‘Per il gusto di uccidere’ era un film onesto, fatto conoscendo le regole”.             

Il soggetto de “I giorni dell’ira” (1967), uno dei film prediletti dall’autore, si ispira alla tradizione del western psicologico. Come Edipo, per diventare uomo il protagonista (Giuliano Gemma) deve uccidere il padre (Lee Van Cleef), o l’individuo che incarna per lui la figura paterna. Il senso di colpa gli farà poi gettar via (non sappiamo se per sempre) la pistola che è servita all’uccisione rituale. “I giorni dell’ira – ha scritto Tullio Kezich – potrebbe anche essere la storia di una corruzione: come un ragazzo povero, che è figlio di una prostituta e pulisce i gabinetti del paese, accetta la lezione di un pistolero alienato per uscire dalla propria condizione. La piccola comunità, che ha confinato il bastardo ai lavori più umili, è composta di gente falsamente rispettabile, un groviglio di vipere. Il pistolero, che per alcuni atteggiamenti simpatici nei confronti del ragazzo, fa prevalere addirittura un rovesciamento finale dei suoi sentimenti, in realtà ha maturato un egoismo assoluto. Il bene è rappresentato da un vecchio ex sceriffo, che riflette la figura paterna ed è a sua volta riflesso in un mendicante cieco: un resto, nella ricostruzione del mito, del personaggio di Tiresia”. Il film, a fine stagione, è secondo nella classifica dei migliori incassi italiani.
 
Nel 1969 esce “Il prezzo del potere” con Giuliano Gemma, Van Johnson, Fernando Rey e Warren Wenders. Ispirato all’assassinio di Kennedy è  un  western politico, che ha il merito di affacciare, tra duelli e sangue, qualche ipotesi sulla manipolazione dell’opinione pubblica e sulla violenza dei gruppi di potere,  industriali e razzisti, con diversi riferimenti ai giorni nostri. Ucciso il presidente degli Stati Uniti, il vicepresidente esita ad assumerne la carica, perché  sa che vi sono documenti compromettenti sul suo conto.  Un pistolero vuole smascherare e punire gli assassini del presidente e del proprio padre, mentre  un messo del vicepresidente cerca di eliminare i pericolosi documenti.  Si confrontano il Sud schiavista e il Nord capitalista, ma  la pace nel paese potrà essere assicurata solo da ipocriti compromessi.

“La ragazza di nome Giulio” (1970), tratto dal romanzo di Milena Milani, rappresenta  una “incursione” nel genere erotico, di moda in quegli anni.  Silvia Dionisio, Anna Moffo, Gianni Macchia – per il regista “una specie di icona dell’ambiguità” – danno vita a una vicenda dai risvolti freudiani. È il ritratto di una giovane ricca,  che ha il nome del padre morto e, affidata a una viziosa governante,  non riesce ad appagare la propria femminilità. Secondo una critica, apparsa sul “Corriere della Sera”,  Valerii  conserva  la “buccia sensazionale del romanzo della Milani: le mani e l’occhio avido della governante che fruga la bambina, gli scontrosi tentativi di essere donna, i suoi amarissimi incontri con uomini di ogni risma e finalmente, buttato all’aria il matrimonio con un  vecchio compagno di scuola troppo dabbene, quel furibondo mutilare un ganimede sconosciuto, che simbolizza l’estrema vendetta contro i maschi”.  Il film ebbe noie censorie, ma  fu selezionato – insieme a “Il conformista” di Bernardo Bertolucci e “L’urlo” di Tinto Brass  – per rappresentare l’Italia al Festival di Berlino del 1970.

“Mio caro assassino” (1972), con George Hilton, Salvo Randone, Marilù Tolo,  si basa su  un meccanismo classico: il rapimento e l’uccisione di una bambina, preludio a una serie di delitti. “Tra i gialli italiani degli anni ’70 – scrive Roberto Curti – è quello più profondamente e implacabilmente morale (non moralistico), proprio come ‘I giorni dell’ira’ e ‘Il prezzo del potere’ erano rari esempi di western etici. L’indagine poliziesca procede di pari passo, grazie alla costruzione a flashback, con la discesa in un habitat familiare pervaso da odi, rancori mai sopiti, tradimenti e serpi in seno.  Ma quando i nodi vengono al pettine e l’assassino è smascherato, non v’è catarsi né redenzione, e ciò che rimane è una sensazione di spreco e sconfitta: chi ha ucciso l’ha fatto inutilmente, perché il suo destino era già segnato fin dall’inizio; chi sopravvive non sarà più lo stesso, dopo aver guardato la propria immagine riflessa nello specchio che fornisce la soluzione del mistero, svelata solo nell’ultima inquadratura. Uno specchio a due facce: da un lato la maschera ormai insulsa della normalità, dall’altro l’insostenibile consapevolezza di quanto v’è celato dietro”.

Sempre nel 1972 Valerii ritorna al western con “Una ragione per vivere e una per morire”, con James Coburn, Bud Spencer, Telly Savalas. Nel Nuovo Messico, durante la guerra di secessione, un colonnello nordista, che aveva abbandonato un munitissimo forte nelle mani di uno sparuto gruppo di assedianti (nell’illusorio tentativo di salvare la vita al proprio figlio, tenuto in ostaggio dai sudisti), ha la possibilità di riabilitarsi rioccupando il caposaldo. L’ex ufficiale può contare soltanto sul proprio coraggio e sulla malfida collaborazione di otto pendagli di forca, soprattutto sull’astuzia di uno di questi (Bud Spencer), che prepara la carneficina finale. Il western italiano, dopo aver demolito l’epos, cerca di ricostruirlo, con un prodotto per molti versi originale, che lascia qualche spazio all’ironia e alla malinconia. Fra i riferimenti,  un classico: “L’assedio dell’Alcazar”  (1940) di Augusto Genina.

Su “Il mio nome è Nessuno” (1973) – il western europeo che ha più incassato – esiste un’ampia aneddotica, soprattutto in merito alla paternità, che Sergio Leone cercava di attribuirsi,  anche a scapito dell’evidenza e di molteplici testimonianze. Interpretato da Henry Fonda e Terence Hill, con musiche di Ennio Morricone, il film fu girato integralmente da Valerii, tranne un paio di sequenze, ritenute tra le più deboli, attribuibili al regista romano, che era il produttore. Per dare un’idea delle polemiche, riportiamo alcuni stralci della recensione apparsa su “L’Unità” del 22.12.1973: “C’è da chiedersi perché mai il nome di Sergio Leone appaia in prima linea, a chiare lettere, sulla pubblicità, mentre quello di Tonino Valerii, il regista, lo si legge appena, incastrato sotto il titolo. Evidentemente, per non pensar d’altro, si tratta di un attacco di divismo d’autore, dopo tutto abbastanza ingiustificato, perché,  a conti fatti, il film di Valerii si rivela di notevole interesse, comunque nettamente superiore a tutti i film girati da Sergio Leone e dai registi italiani specializzati nel ‘western spaghetti’. Il film di Valerii è forse il primo western ‘all’italiana’ che contesta se stesso e tutta la tradizione del genere, è c’è da rilevare che tutta l’operazione dissacrante è condotta con raro rigore stilistico e soprattutto con i mezzi dell’ironia e della satira”. E ancora: “I protagonisti della storia sono un pistolero imbattibile della vecchia generazione, Jack Beauregard, l’ultima speranza di giustizia nel paese, tallonato dal ‘mucchio selvaggio’ di Sam Peckimpah (che giace in un piccolo cimitero) e Nessuno, l’uomo nuovo, astuto e scanzonato, capace di far entrare e uscire dalla storia l’eroe. Nessuno sarebbe con quelli che ‘leggono’ la storia, mentre Jack con quelli che ‘muoiono’ nella storia. Ma, alla fine, le cose andranno ben diversamente, e possiamo anche cogliere una sottile allusione: gli eroi – secondo la lezione brechtiana del ‘Galilei’ – sono ormai tramontati non solo nei film, ma anche nella storia, nella vita”. Invece, per Roberto Curti ‘Il mio nome è Nessuno’ “non è il migliore western di Valerii.  Gli fanno difetto la densità emotiva de ‘I giorni dell’ira’ e il respiro storico di ‘Il prezzo del potere’, ed è penalizzato da una sottotrama pretestuosa. Inoltre, soffre lo stridente contrasto tra il tono elegiaco e le zeppe comiche, in misura ancora maggiore di quanto le sporadiche impennate buffonesche del personaggio di Bud Spencer stonassero all’interno del cupo universo barbarico di ‘Una ragione per vivere e una per morire’”.

“Vai gorilla” (1975), con Fabio Testi, Renzo Palmer, Claudia Marsani, Saverio Marconi,  è un poliziesco, ambientato nella periferia romana.  Dopo un incidente  imprecisato, il protagonista cessa di fare la controfigura per scene acrobatiche ed entra a far parte dei cittadini dell’ordine, facendosi assumere come “gorilla” da un costruttore, che si sente minacciato da una banda di ricattatori. L’unico modo per fronteggiarli è quello di uscire dalla legalità, sotto l’occhio benevolo della polizia. Alla fine il “gorilla” scopre il doppio gioco dei suoi colleghi, il costruttore ritrova la pace del lavoro e la città torna ad essere “civile”.

 Segue, nel 1977, “Sahara cross” (1977), con Franco Nero, Michel Constantin, Pamela Villoresi.  È un film d’azione di ambientazione esotica, con spunti picareschi, alla maniera de “La stangata”.  “Fanno  parte del gioco anche lo smaccato accumulo di colpi di fortuna – tra gli interpreti,  il prestigiatore Tony Binarelli –, i rovesciamenti di fronte e gli azzardi che conducono il protagonista e i soci a dividersi i dollari, sganciati da una multinazionale del petrolio.  Il carattere di divertissement è svelato fin dall’inizio, mentre il finale è parodistico, con lo spogliarello accelerato di Franco Nero, che brinda alla fortuna milionaria in mutande e calzini” (Curti).  La Steadicam permette a Valerii una evoluzione del piano sequenza dalla sua forma base, sostanzialmente lineare. Viene infatti usato in esterni per costruire uno spazio tridimensionale, da esplorare circolarmente.

Passano otto anni, prima che Valerii torni alla macchina da presa.  I progetti non lo soddisfano. Nel 1985 dirige tre episodi di 60’ ciascuno della serie televisiva “Caccia al ladro d’autore”: ‘Addio Raffaello’, ‘La foresta che vola’, ‘Cartografia sacra’, con Giuliano Gemma. “La cosa più tremenda del lavorare in televisione – racconta il regista – è il tempo che ti mettono a disposizione. In questi casi occorre sopperire alla mancanza di tempo con la furbizia, con le invenzioni, dato che bisogna strutturare la storia in modo diverso. Ci vuole un grande mestiere, che non sempre dà i risultati sperati”.  Nel 1984 aveva diretto due episodi , di 60’ ciascuno,  della serie tv in tredici episodi ‘Due assi per un turbo’, di produzione italo ungherese,  andata in onda nel 1987: ‘Chi primo arriva’ e ‘L’uomo dal turbante rosso’. Fra gli interpreti: Philippe Leroy, Adolfo Celi, Isabel Russinova, Giulio Scarpati.

 Nel 1986 Valerii dirige “Senza scrupoli” con Sandra Wey, Marzio Honorato, Cinzia de Ponti. “È una metafora sulla violenza e l’erotismo – dichiara il regista a Ciak – in un contesto sociale aberrante, in cui i rapporti umani sono labili e difficili. Per far capire tutto questo era necessario, da parte mia,  raccontare in maniera realistica”. Il film  incassa bene e ha un seguito apocrifo,  “Senza scrupoli 2” (1991) di Carlo Ausino. Nonostante la presenza della francese Sandra Wey, protagonista di “Histoire d’O- Ritorno a Roissy”, le scene erotiche, grazie a “calligrafiche ellissi” o al ricorso al grottesco, non sono mai eccessive.

Nello stesso anno  1986 e nel 1987 il regista dirige due film,  visibili solo in home video o in tv, perché  senza visto di censura: “La sporca insegna del coraggio / Fratelli di sangue”  (nato come filiazione di un film di guerra di Ted Kotcheff, “Fratelli nella notte” e interpretato da Bo Svenson e Peter Hooten, già in “Quel maledetto treno blindato” di Enzo G. Castellari) e “Sicilian Connection (Shatterer)”,  con la partecipazione di Toshiro Mifune.  Entrambi i film – girati negli anni della crisi profonda del cinema italiano, quando  i registi trovavano lavoro  soprattutto in funzione dei  passaggi televisivi – sono coraggiosi e hanno una loro dignità artistica.

Nel 1988 dirige tre puntate e parte della quarta del film per la televisione (trasmesso da Canale 5) “Il ricatto”, con soggetto di Ennio De Concini e Massimo Ranieri, con Massimo Ranieri, Barbara Nascimbene, Fernando Rey, Jacques Perrin, Kim Rossi Stuart, Luca De Filippo, Leo Gullotta, Roberto Herlitzka. L’anno seguente dirige il film per la tv “Due madri”, con soggetto di Ugo Pirro, Massimo Russo, Marta Prandi e dello stesso Valerii, interpretato da Barbara De Rossi (premiata come migliore attrice televisiva dell’anno), Sonia Petrovna, Gianni Garko. Andato in onda su Raiuno, il film ottiene  un notevole successo di pubblico ed è considerato il più riuscito fra quelli realizzati per la televisione. Merito del regista, che affronta con misura e pudore, temi fra loro diversi, come l’accoglienza di un minore in una famiglia non sua e il dramma dei “desaparecidos” argentini.  Ancora per la tv Valerii dirige “Una prova d’innocenza” con Enrico Montesano, in un inedito ruolo drammatico, Corinne Dacla, Luigi Pistilli. Il film è  trasmesso in due puntate su Raidue nel 1991 e registra ascolti notevoli.

“Un bel dì vedremo” (da un idea di Kon Ichikawa, l’indimenticato autore de “L’arpa birmana”), girato in alta definizione nel 1996, è un film rivolto al pubblico giapponese. È la storia di un gruppo di anziani ospiti in una casa di riposo, che rappresentano per l’ultima volta “Madama Butterfly”. Fra  gli interpreti  la soprano bulgara Raina Kabaivanska, Massimo Girotti, Giuliano Gemma. L’ultimo film diretto da Valerii è “Una vacanza all’inferno” (1997) tratto dal libro inchiesta del giornalista Fabrizio Paladini sulla vicenda di un giovane imprigionato per traffico di droga in un carcere thailandese. Interpretato da Marco Leonardi, F. Murray Abraham, Mirca Viola, Giancarlo Giannini, è stato girato a Manila e nel dismesso penitenziario di massima sicurezza di Frosinone. È film di interesse culturale nazionale.

Nel 2007, in veste di attore,  Valerii è  fra gli interpreti di “All’amore assente” di Andrea Adriatico, con Milena Vukotic, Corso Salani, Eva Robin’s.

A Roseto degli Abruzzi ha ideato e diretto, dal 1996 al 2013, la rassegna “Roseto Opera Prima”, dedicata ai migliori esordi nella regia di giovani talenti. Fra i premiati Carmine Amoroso, Ferzan Ozpetek, Danis Tanovic, Francesco Patierno, Vittorio Moroni, Kim Rossi Stuart, Giorgio Diritti, Alessandro Angelini.

Valerii era consapevole che con “Il mio nome è Nessuno” – e con le polemiche susseguenti, che lo avevano provato fisicamente e psicologicamente – era finita un’epoca, “che non è stata solo quella del western all’italiana, ma di tutto il cinema italiano, perché per molto tempo il western è stato il cinema italiano. Non dobbiamo vergognarcene. Per oltre un decennio il western ha assorbito e plasmato energie e idee, forze creative e muscolari: registi, sceneggiatori, operatori, ma anche tecnici, macchinisti, cascatori”.  

Il regista non era venuto a patti con le esigenze del mercato,  della televisione in particolare, che gli dettava  i tempi delle riprese. Alla fine aveva dovuto cedere,  con dignità – come tanti colleghi, più o meno famosi, in attesa di postuma rivalutazione – al cinema che si consumava in un attimo. Era un cineasta colto, di molte e raffinate letture. Prediligeva il cinema orientale, specie quello giapponese, di cui era esperto. È autore del “Manuale dell’aiuto regista” (Ed. Gremese, Roma 2008). Tonino Valerii lascia l’immagine di un abile artigiano, scrupoloso nel suo lavoro, aperto al nuovo,  estraneo a ogni forma  di improvvisazione e superficialità.

Mario Giunco



TONINO VALERII
Video intervista di Luca Maggitti, nel 2009 a Roseto degli Abruzzi.
YOUTUBE
https://www.youtube.com/watch?v=U4jxDfHpcyg
FACEBOOK
https://www.facebook.com/lucamaggitti/videos/10225136666990037

 

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