Il panino con la porchetta è come la Nazionale di Calcio: unisce, al di là di fedi e appartenenze.
Quello con il tacchino alla canzanese è un po’ più “jazz”. Un prodotto più di nicchia, anche se ugualmente buonissimo.
“La morte sua” – del panino con la porchetta – è la crosta.
“La morte sua” – del panino con il tacchino alla canzanese – è la gelatina.
OK, d’accordo su tutto. Ma come reperirli in un tardo pomeriggio invernale, senza salire in macchina ed anzi rimanendo nel triangolo scaleno di un centinaio di passi entro il quale la mia vita pigra si svolge quotidianamente?
Ci sarebbe Piazza Ungheria in zona Corea (deliri geografici possibili a Roseto degli Abruzzi), e quel marciapiede da sempre ribalta naturale per il porchettaro di turno. Solo che il porchettaro è difficilissimo beccarlo.
Decido di tentare. Un centinaio di passi da Via Seneca portano a Piazza Ungheria, passando per un sottopassaggio alto 180 cm. Lo percorro pessimista, perché le ultime due volte il porchettaro non c’era e le due volte in cui l’ho trovato sono ormai lontane.
Ma oggi lo sforzo di svoltare l’angolo è premiato. Pochi passi dopo la salitella che segue il sottopassaggio, mentre ancora cerco di riportare la testa in allineamento dopo la piegata per passare sotto i 180 cm, ecco che, all’orizzonte, una sagoma mi riempie di gioia. E’ il furgone del porchettaro. Oggi c’è.
Un sorriso mi prepara la bocca, mentre affretto il passo. Sto già pregustando lo scrocchio secco del coltello sulla crosta della porchetta quando – funesto presagio! – il furgone d’un colpo s’incupisce. Le luci si spengono e, mentre mi sto avvicinando alla Strada Statale 16 da attraversare, scorgo il porchettaro che sta chiudendo. Non posso permetterlo!
Decido di lanciare il cuore oltre l’ostacolo (portando pure la panza) attraversando col rosso. Una Panda piena di pietà (il conducente avrà capito che dovevo placcare il porchettaro?) dà un colpetto ai freni e mi lascia passare dall’altra parte. Un paio di balzi e sono sotto il furgone, con l’aria di uno che passa da quelle parti per caso, mentre il porchettaro – vestito in una comoda tuta (abbigliamento futurista spesso bistrattato) – sta chiudendo la porta posteriore, censurando così i miei sogni pornogastrici.
«E’ finito tutto?», chiedo già in lutto.
«No, stavo chiudendo che è quasi ora», mi risponde sorridente.
Nel buio della piazza, al quale si aggiunge il buio del furgone, quel sorriso tutto fluoro mi dà coraggio. Così rompo gli indugi, passando al tu e prorompendo: «Beh, ma un paio di panini quindi me li puoi fare, uno con la porchetta e uno con il tacchino alla canzanese?».
Lo sconosciuto dispensatore di pace e democrazia annuisce, sorride, riapre e riaccende le luci. Mi sento un bimbo al quale hanno riacceso la giostra solo per lui.
Alla mia sinistra, coperta da un panno con motivi geometrico-rustici (“lù m’sàl” si direbbe in dialetto locale) sta un generoso pezzo di porchetta. Le vendite oggi hanno evidentemente zoppicato, manco fossero legate allo spread.
Il porchettaro prende dal sacco grande due panini, che svergina con la precisa coltellata che prima entra e poi intontisce il panino, facendolo ruotare sulla lama in modo che quello si ritrova perfettamente diviso a metà, stramazzato sul banco di legno.
Il primo è destinato alla porchetta. Il coltellone al sapore di scimitarra (per via della punta) inizia a fare il suo dovere affettando ampi pezzi di carne. La mia bocca passa in modalità acquolina.
Il Nostro è la terza volta che mi vede e il suo DNA di commerciante itinerante gli consente di certo di ricordarsi come voglio il panino. Però un porchettaro che si rispetti la domanda deve farla ugualmente, altrimenti sarebbe come un prete che – dichiarata la messa finita – non dicesse “andate in pace”.
Ed ecco allora il pezzo più importante della laica e gastronomica liturgia, naturalmente usando il plurale maiestatico: «Ce la mettiamo la crosta?».
Ogni volta che sento questa domanda, mi parte la capoccia e sogno il PalaMaggetti che, all’unisono, scatta in piedi ed esplode in un liberatorio: “Sì!”.
Mentre i pensieri vanno e il mio salvatore di cena imbottisce un robusto panino dopandolo con la crosta, cerco di mettere al sicuro il cibo per il futuro e gli chiedo: «Scusa, ma tu, precisamente, in quali giorni ci sei qui in piazza?».
Il porchettaro senza nome sorride e, manco fosse Jimi Hendrix, chiosa: «Ma, guarda, non c’è una sera precisa. A volte… a volte… martedì e mercoledì…».
Strepitoso! Esiste un solo porchettaro rock in tutto il mondo e io ce l’ho di fronte. Non è un venditore di panini imbottiti. No, è un artista, un girovago del sapore. E mentre avvolge il panino nella carta lo immagino mentre guida e – per dirla con Ungaretti – cerca un paese innocente, meritevole di porchetta e tacchino alla canzanese, in cui fermarsi.
Ma io – che ancora devo addentare i due panini di stasera – sono un pianificatore e non mollo. Così, mentre lui apre il frigo nel quale ha riposto la vaschetta in cui custodisce il pezzo di tacchino alla canzanese, lo incalzo: «Vabbè, ma quindi io qui, in piazza, non c’è un giorno certo in cui…».
Il tutato entra con perfetto tempismo in una delle semipause della mia balbuzie affamata chiarendo: «Guarda, io di certo faccio i mercati della mattina, poi il pomeriggio giro… diciamo… diciamo che di sicuro sto ogni giovedì a Scerne, di fronte al pub».
Maledizione, Scerne di Pineto. E’ lontanissimo!
Tanto vale, se non lo trovo in piazza, puntare verso il centro e accettare la fatica di arrivare fino alla Squisita. Anche se in quel caso c’è un negozio e non il furgone e la porchetta è privata del nomadismo che ne ha fatto il cibo più “on the road” che io conosca. Un cibo rock, appunto.
Ma intanto adesso il porchettaro rock è qui, e mi sta imbottendo alla grande pure il panino con il tacchino alla canzanese.
E siccome la liturgia è liturgia, io aspetto che mi faccia la domanda. Certo, potrei dirglielo io prima, ma perché scombussolare l’ordine secolare della tradizione?
Il Nostro non si fa attendere e piazza la sempre gradita questione: «Ce la mettiamo la gelatina?».
Gol! Annuisco e lui farcisce. Anche il secondo panino è fatto e presto arrotolato.
Abituato evidentemente ad appetiti monodose, il porchettaro rock strappa, lasciandolo penzoloni, un lembo della confezione del secondo panino e mi dice: «Quello con la carta strappata è con il tacchino, l’altro con la porchetta, così li riconosci».
Mi viene da ridere. Anzi rido e ribatto: «Non ti preoccupare, sono tutti e due per me».
Stavolta ride lui, estraendo una mezza valigia dalla quale tira fuori il registratore di cassa, lo accende e batte lo scontrino. Due panini, 5 euro. E passa la paura.
Lo pago e penso che è pure straonesto, avendo acceso il registratore anche per questi due panini “fuori sacco”. Bravo, bravissimo.
Evviva il porchettaro rock di Piazza Ungheria, girovago del sapore, al quale non posso esimermi dal dedicare una rima satollante, pensando a Giovanni Pascoli.
O porchettaro, porchettaro storno
che prepari quella e quello che mangio senza contorno...